15 febbraio 2012 | Francesco Falcone

’68

di Francesco Falcone
68

Come assaggiatore mi sono formato in un clima per così’ dire enologico in cui non era tanto importante che cosa si bevesse, ma era decisivo che la cosa bevuta rappresentasse nella sua tipologia il massimo grado di avanzamento della tecnica viticola ed enologica.

Era una concezione “agonistica” dell’essere esperti, in cui il mondo del vino veniva infallibilmente diviso in due: sopra una certa linea c’era la classifica buona, presieduta dai vini innovativi, figli del progresso, prodotti da interpreti che volutamente (non so se per istinto o per consapevolezza) scavavano una trincea rispetto al mondo vitivinicolo del passato, ovvero rispetto ai quei vini legati a una cultura tradizionale. Tradizionale per scelta, per volontà, per profonde e radicate convinzioni o semplicemente per incapacità, approssimazione, negligenza.

Se bevevi ciò che stava nella parte alta della classifica, allora ti sentivi forte, perché dentro il tuo calice passavano cose veramente “avanti”, qualche volta “oltre”, in ogni caso mediamente “all’avanguardia”, in quanto contestavano un vecchiume o ne svelavano radicalmente la presunta falsità. Una sorta di “controcultura” del vino, una sorta di ’68, se posso permettermi l’accostamento.

Inutile dirvi che per molti anni, diciamo dal 1993 al 2000 (ovvero dal mio primo corso AIS alla mia esperienza come sommelier in Francia, presso Georges Blanc) non avevo mai bevuto con attenzione, se non per sbaglio, i vini che stavano sotto la linea, cioè quelli della classifica bassa, quelli della tradizione o presunti tali.

Di quelli, tra noi enofighetti della prima ora, non era il caso neppure di parlarne, se non per assumerne didascalicamente l’esemplare inconsistenza (leggi diluizione o acquosità), le robuste riduzioni, le “terribili” puzze, o per fare qualche esempio in negativo agli ignari di turno.

A quei tempi, lo ricordo benissimo, mi facevano impazzire i vini di Tenuta Rubino, nel Brindisino. In Puglia era il nuovo che avanzava, lo smarcamento dal passato remoto, l’altra faccia del Salento, senza le rughe dei Candido, dei Vallone, dei Taurino, ma con quell’aspetto giovanile, pacioso, sodo, carnoso, muscoloso, palestrato che evidentemente riscattava, nel mio inconscio, un’adolescenza trascorsa a sbevacchiare ruvidi rossi del contadino senza capo né coda.

La faccio breve, ché se no sono lungo come la messa cantata. Ho appena stappato, proprio mezz’ora fa, il Primitivo di Manduria Tradizione del Nonno 2008 della Famiglia Pichierri di Sava. Che dire?

È così buono, ma così buono, ma così buono, sì, proprio buonissimo, che solo ora, in questo preciso istante, penso che o sono completamente cambiato io, oppure gli steccati di un tempo non ci sono più. Le trincee si sono naturalmente dissolte.

Forse, dico forse, è una cosa che dico senza una riflessione filosofica alle spalle, oggi la distinzione tra nuovo e vecchio, tra tradizione e innovazione, non ha più motivo di esistere.

Perché mai come oggi, le due strade scorrono parallele e in alcuni casi si sfiorano e si incrociano. Ed è un bene per tutti.

Se vi sono sembrato troppo doroteo, linciatemi pure.
Non li ho mai sopportati i dorotei.

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