24 gennaio 2012 | Alessandro Masnaghetti

Abbinamenti: la Parigi degli anni ’20 e Charlotte Perriand

di Alessandro Masnaghetti
charlotte perriand

Molti storcono il naso quando si parla di bere da soli come se la cosa comportasse, innegabilmente, l’appartenenza al mondo degli alcolisti. Il vino è spesso sinonimo di grandi tavolate, vociare chiassoso, sorsi ampi e pacche sulle spalle in uno schema ben codificato e reiterato, quanto, almeno al sottoscritto, talvolta estremamente noioso. È invece proprio il carattere imprevedibile del vino, quale esso sia, che me lo fa apprezzare quando bevuto in solitudine, fuori da qualsiasi traccia e da qualsiasi logica del giusto abbinamento. Spesso un buon vino mi ha tenuto compagnia durante le serate di lavoro, più fedele di un cane e più caloroso di un gatto che fa le fusa adagiato sulle gambe. Forse per pudore, ma amo bere un buon vino da solo come amo leggere un bel libro in solitudine, anche se me lo concedo raramente, perché nessuno mi sorprenda mentre sorrido, rido, piango o mi rammarico. Rammarico che diviene rimpianto quando quella stessa bottiglia di vino o quello stesso libro sono giunti alla fine.
Uno degli abbinamenti più riusciti che io ricordi fu tra un Venegazzù rosso del 1962 del Conte Loredan Gasparin con quel meraviglioso libro che è Festa mobile di Ernest Hemingway, pubblicato dopo la sua morte, e a cui lo scrittore lavorò dopo aver ritrovato nelle cantine dell’hotel Ritz di Parigi, tra una bottiglia e l’altra, nel ’57 o poco prima, un vecchio baule con alcuni suoi quaderni degli anni venti.
Sì, non una grande annata la 1962 a conferma della regola che nelle piccole annate è tra i piccoli vini che bisogna pescare. Così come Hemingway ha scritto libri migliori osserverà qualcuno, ma forse è proprio per questo che stavano bene insieme.
Uno dei rimpianti che mi ha sempre accompagnato è di non aver potuto vivere la Parigi degli anni venti e trenta che traspare così bella in quel libro. Avrei potuto recarmi di buon mattino, in primavera, alla Closerie des Lilas, mi sarei seduto ad uno dei tavolini all’ombra dei platani e della statua del maresciallo Ney in attesa che un giovane Hemingway arrivasse con le sue matite, i quaderni, il coltellino in una tasca e le zampe di coniglio come portafortuna nell’altra e in silenzio sarei stato lì a guardarlo mentre lavorava. Oppure a cena con Joyce, cieco come una talpa, aiutandolo a leggere i menu; sfottere Scott Fitzgerald incapace a reggere l’alcol che sveniva dopo un bicchiere di troppo. Il primo solitamente. Oppure a far baldoria con Pascin o Picasso, andare nel salotto di Gertrude Stein e ascoltarla parlare della generazione perduta o a Notre-Dame-des-Champs nel salotto povero, quanto era ricco quello della Stein, di Ezra Pound e sua moglie Dorothy.
Se avessi potuto, nel 1927, sarei andato al Dome o in uno dei caffè di Boulevard du Montparnasse per aspettare che un mattino una giovane studentessa ventiquattrenne dell’Ecole de l’Union Centrale des Arts Décoratifs, Charlotte Perriand, bellissima in un tubino beige e una camicia decorata con piccoli fiorellini e un grazioso capellino, con la cartellina dei disegni sotto braccio, impiegasse quegli otto minuti che separavano casa sua dal numero 35 di rue de Sèvres, per arrivare dinnanzi al prestigioso atelier del grande architetto Le Corbusier. Avrei voluto guardarle il viso tirato ed emozionato prima di entrare.
“Qui non si ricamano cuscini…” disse un sarcastico Le Corbù dopo aver guardato i suoi disegni.
Dopo alcuni mesi ebbe modo di ricredersi quando al Salon d’Automne vide alcuni mobili progettati da quella giovane ragazza. Si scusò e l’assunse. La sposò pure, anche se non durò molto. Fu da allora che nel prestigioso atelier si iniziarono a progettare quei mobili che ingiustamente si attribuiscono al grande Le Corbusier, ma che invece erano il frutto di un genio dal nome Charlotte Perriand. Compresa quella chaise longue dove io mi adagio, meno leggiadro di lei, per leggere i miei libri e bere i miei vini. Anche se in fondo solo non lo sono mai.

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