30 gennaio 2014 | Alessandro Masnaghetti

Antonio Mastroberardino

di Alessandro Masnaghetti
Antonio Mastroberardino 2

Il 28 gennaio 2014 è una data destinata a farsi ricordare per chi da domani vorrà raccontare in maniera completa la storia del vino europeo. Fuori da ogni deviazione retorica, con la scomparsa di Antonio Mastroberardino se ne va uno degli ultimi “padri fondatori” della vitienologia italica ancora in vita. Ci lascia il “dottore”, come veniva chiamato nella sua terra fin da giovane, che più di tutti, insieme ai suoi fratelli, ha contribuito a far conoscere nel mondo il potenziale di bellezza e diversità nascosto nel Sud peninsulare.

Antonio Mastroberardino

Se oggi possiamo confrontarci, a prescindere dal gradimento, con vini-vitigni come l’aglianico e il Taurasi, il Greco, il Fiano o i Lacryma Christi del Vesuvio, lo dobbiamo soprattutto a lui e ad una sua intuizione, tanto logica vista con gli occhi di oggi quanto “rivoluzionaria” nel periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale. Erano anni di miseria economica e sociale per l’Irpinia e la Campania, che si riflettevano in pieno nello scenario viticolo e produttivo. Dopo essere stata negli anni venti la terza provincia italiana per volumi di vino generati, la provincia di Avellino si trovava a fare i conti con l’abbandono delle campagne, l’emigrazione, lo spostamento verso i centri urbani alla ricerca di lavoro nelle industrie e nella pubblica amministrazione. Né migliorava le cose il fatto che la fillossera fosse arrivata in Campania con quasi un trentennio di ritardo rispetto alla Francia e al nord Italia, quando la guerra era alle porte e le contromisure non furono sempre adottate tempestivamente. Dal Ministero dell’Agricoltura arrivavano forti pressioni affinché i vigneti fossero il più possibile ricostituiti, indipendentemente dalle varietà e dalle vocazioni territoriali. Gli Ispettorati Agrari spingevano a favore di vitigni “nazionali” come il sangiovese e la barbera, i trebbiani e le malvasie, estremamente adattabili a varie condizioni e di sicura garanzia sul piano quantitativo delle vendemmie. In questo snodo il ruolo di Antonio Mastroberardino fu non importante, ma decisivo. Senza necessità di distinguo o di livelli di lettura. Il dottore comprese che un terroir impervio ed isolato come quello irpino non avrebbe mai potuto competere di nuovo sui volumi e sui prezzi, anche solo rispetto a regioni distrettualmente vicine come la Puglia o l’Abruzzo, per non parlare della Sicilia. “Si è pensato che la guerra fosse un fatto momentaneo, come un fatto momentaneo era”, sottolineava in questo video del 2005 sulla storia del Taurasi, “e che si dovesse pensare al futuro dell’economia provinciale e dell’economia vitivinicola non con dei prodotti a basso prezzo ma con dei prodotti ad alto valore aggiunto”. Bisognava convincere i pochi veri viticoltori rimasti a non abbandonare le varietà tradizionali e don Antonio vi dedicò tutto sé stesso, andando a parlare con ogni singolo proprietario, contadino, mezzadro. Vigna per vigna, fazzoletto per fazzoletto, un vero e proprio porta a porta senza il quale molto probabilmente l’Irpinia del vino sarebbe completamente un’altra cosa. Ci riuscì grazie ad un autentico patto di onore e remunerazione: i viticoltori si impegnavano a conservare ed impiantare fiano, greco e aglianico, la famiglia Mastroberardino si assumeva l’onere di corrispondere per l’acquisto delle uve prezzi decisamente più alti rispetto ai valori di mercato del periodo. Alle spalle c’era una cantina prestigiosa e già da tempo affermata, non solo sul mercato nazionale, attiva ufficialmente da quasi un secolo, che avrebbe fortificato con le proprie bottiglie l’opera di valorizzazione non solo di singoli vitigni, ma di un intero territorio. Pochissime altre volte nella storia economica del sud si sono incontrate in modo tanto virtuoso lungimiranza imprenditoriale e sostenibilità sociale, generando una vera filiera, capace di resistere alle intemperie nonostante i cambiamenti e le difficoltà successive.

Sono fatti documentati, non opinioni, che rendono questo 28 gennaio 2014 un momento storico sotto tanti punti di vista. Si chiude un’epoca e se ne apre definitivamente un’altra, non migliore o peggiore, ma indubbiamente diversa: rendere omaggio ad un personaggio come Antonio Mastroberardino è facile e doveroso, molto più difficile per chi resta interpretare e raccoglierne davvero la lezione. Per troppo tempo l’Irpinia e la Campania del vino hanno cercato rifugio nella dimensione calda e rassicurante del passato, trovando proprio nel dottore di Atripalda il totem ideale per identificarsi in un successo “collettivo”. Ma questo credito non è illimitato ed è nel presente, da oggi stesso, che il variegato universo produttivo regionale deve dimostrare di essere all’altezza dei pionieri costantemente evocati. L’opera del Cavaliere (nominato nel 1994) sarà in qualche modo incompleta senza una piena presa di coscienza dei limiti e delle opportunità, ma soprattutto senza un movimento capace di andare incontro al cambiamento con lo stesso coraggio, la medesima abnegazione, l’identico livello di conoscenza che ha guidato Antonio e la famiglia Mastroberardino nel dopoguerra.

Intendiamoci, il suo rapporto col territorio non è stato sempre tutto rose e fiori e sarebbe quanto meno ingenuo ridurre un uomo dal carattere così complesso nel solito santino da fiction. Ma anche in questo caso è un fatto, non un’opinione, che Antonio Mastroberardino ha saputo meritarsi rispetto e riconoscenza pressoché unanime durante tutta la sua vita. Le oscillazioni dei prezzi delle uve, specialmente dagli anni ’90 in poi, hanno spesso determinato discussioni ed incomprensioni con i tanti attori della filiera, conferitori in primis, e tante aziende che conosciamo e di cui oggi rendiamo conto sono nate proprio da una sorta di “strappo” con la grande cantina irpina. Anche chi ci ha “litigato”, però, ha sempre conservato e manifestato pubblicamente riguardo totale nei confronti di Antonio Mastroberardino, quella stima contadina nel senso più bello del termine che il disaccordo non scalfisce, anzi, semmai rafforza. Perché il dottore, questo raccontano tutti indistintamente, ci ha sempre messo la faccia, era sempre lì in prima persona a trattare e far valere le sue ragioni, perché tutti sanno che senza il suo lavoro non ci sarebbero oggi né piccoli né grandi. Perché c’era sempre un intento “formativo” nel sostegno delle sue argomentazioni, perché anche nelle controversie più accese non è mai trapelata un’ombra di disprezzo o di latente senso di superiorità rispetto a i suoi interlocutori, indipendentemente dall’estrazione e dall’esperienza nel mondo del vino. Il cavaliere conosceva bene le zone più vocate e sapeva premiare le materie prime migliori, anche perché in cantina c’è stato lui per quasi 50 anni.

Bottiglie mitiche come i Taurasi ’58, ’61, ’68, ’71, ’73, ’77 e tanti altri portano la sua “firma”, ma ogni volta che ho provato a capire da lui perché quei vini sono così diversi da quelli di oggi e in ultima analisi “unici”, ho sempre incocciato in una bonaria ritrosia. Continuavo a chiedergli della durata delle macerazioni, dei mesi di affinamento, della provenienza e del volume delle botti, e lui regolarmente sminuiva il ruolo di queste variabili. Spesso aggiungeva che alla fine trovava più “buoni” gli aglianico irpini di oggi, non soltanto quelli della sua azienda. E solo con molto ritardo ho capito che in quei momenti stava provando a farmi vedere l’inutilità di un’intenzione poco più che sterilmente archeologica, perché quella viticoltura, quei cloni, quelle piante, quelle espressioni appartenevano ad un’epoca chiusa, archiviata, a prescindere dal giudizio di valore. Il suo era un continuo invito a guardare avanti, a prendere atto del cambiamento senza inciampi nostalgici. E’ stata una vera fortuna poterlo incontrare e intervistare a più riprese, abbracciando il ritmo a volte sofferente e silenzioso dei suoi pensieri. Tra tutte le riflessioni ascoltate da lui, ce n’è una che mi torna sempre in mente e che mi fa venire la pelle d’oca ogni volta che riguardo il video linkato. Da oggi quel passaggio diventa ancora più centrale e mi piace pensarlo come la sintesi del suo testamento morale: “a me è capitato di essere un poco il padre dei vini della regione e quindi dell’Irpinia. Un padre che muore senza eredi, è un padre che vorrei dire…è come se avesse abortito, perlomeno culturalmente”.

A questo articolo uscito a firma di Paolo De Cristofaro è come se ci avessimo lavorato tutti noi della redazione di Enogea. Ognuno con il suo ricordo legato ad Antonio Matroberardino. Alla famiglia, le mie condoglianze personali e quelle di tutta la redazione. 

Alessandro Masnaghetti.

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