Barolo Chinato
di Francesco FalconeBarolo Chinato. In origine – più di un secolo fa – c’era quello di Giulio Cocchi, di Giuseppe Cappellano, di Zabaldano, del Tarditi, di Giacomo Borgogno. Appartiene all’infelice categoria dei vini leggendari che tutti conoscono ma che in pochissimi stappano. Ed è un peccato. Non è facile da comprendere perché è un “vino non vino”, una base di Barolo autentico successivamente zuccherata, fortificata e “drogata”: a seconda delle occasioni si fa aperitivo, digestivo, corroborante, ricostituente, ingrediente da long drink e rosso da dessert (ma solo in ultima battuta). I suoi eccessi sono anche i suoi pregi: al naso le note amaricanti della china calissaia, l’irruenza delle spezie macinate, il timbro mediterraneo delle erbe aromatiche, il tocco “toscaneggiante” del tabacco e quello esotico delle resine, in bocca l’intreccio virtuoso tra tannini di razza e dolcezza liquorosa, acidità e pungenza alcolica. Ama stare col cioccolato: sopporta la sua componente amara, sfida la sua persistenza e al meglio ne amplifica il corredo odoroso. Non è un vino “commerciale”: è abitudine tenerlo per sé, per le ricorrenze; succede un pò come nel Chianti, dove il Vin Santo nicchia nel sottotetto di ciascun produttore senza velleità commerciali. Tuttavia è possibile trovare in enoteca delle interpretazioni di rango: ottime quelle prodotte a La Morra dai Cordero di Montezemolo e a Verduno dai Fratelli Alessandria. Buona, come sempre, la versione tradizionale della Giulio Cocchi di proprietà della cantina Bava di Cocconato. Personali e gustose le variazioni sul tema di Fontanafredda di Serralunga, di Rocca di Costamagna a La Morra, di Michele Chiarlo di Calamandrana, dei Ceretto di Alba. Ma il mio Barolo Chinato preferito rimane quello dei Cappellano di Serralunga, che mi fa compagnia in questa giornata grigiopadana.