5 aprile 2012 | Francesco Falcone

Don 2007, Villa Liverzano

di Francesco Falcone
don

La parabola geografica-lessicale di Marco Montanari, che da Radda in Chianti ha scavalcato l’Appennino stabilendosi in un’affascinante villa storica immersa sulle alture di Brisighella, il cui nome – Liverzano – differisce di una sola consonante rispetto alla precedente azienda (Livernano), stimolerebbe la vena critica di Stefano Bartezzaghi, sempre propenso a dubitare delle coincidenze anagrammatiche.

Ma l’aspetto più interessante della faccenda è che la nuova attività di questo svizzero giramondo, dentista di professione e produttore di vino per passione, in meno di dieci anni di storia ha già regalato bottiglie di ragguardevole qualità ai bevitori del vino romagnolo. In particolare sul versante del blend bordolese, interpretato qui con una sagacia e uno stile che meritano attenzione e rispetto.

Alla base di questi risultati ci sono la riconosciuta ambizione di Marco affiancate dalla competenza scientifica di Francesco Bordini (figura rara di enologo e agronomo consulente profondamente legato alla sua regione) e da un terroir di buone potenzialità, dove il vigneto è posto ad altitudini perfette per le esigenze delle uve (intorno ai 350 metri di quota), orientato prevalentemente a sud e piantato su suoli tra i più completi della regione, di matrice marnoso-arenacea con una piccola ma significativa quota di gesso.

È in queste condizioni che nasce il Don, il vino di punta della gamma aziendale: e se l’etichetta è tra le più lugubri e funeree che si possano incontrare sul mercato mondiale, il contenuto regala un insospettato quanto felice orizzonte espressivo a due vitigni tutt’altro che semplici da plasmare fuori dal loro habitat originario come carmenère e cabernet franc.

Il 2007 è a memoria l’annata più interessante tra quelle degustate (insieme a un ineccepibile 2005): al naso viaggia sul filo del frutto e della vegetalità – senza mai essere soffocato dal varietale – e al palato si muove flessuoso e curato senza però apparire l’ennesimo “superqualcosa” troppo pettinato e prevedibile.

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