4 febbraio 2012 | Francesco Falcone

Gavi Minaia 2005, Nicola Bergaglio

di Francesco Falcone
bergaglio

Se consideriamo il bianco per quanto si è andato depositando nella nostra coscienza, il suo significato conduce al vuoto, alla lacuna: una pagina bianca è priva di testo, una notte bianca è priva di sonno, un assegno in bianco è senza importo, un’uscita in bianco è senza risultato, andare in bianco è senza piacere, mangiare in bianco è senza sapore. Nel vino, per fortuna, il colore si riscatta, facendosi portatore di una forte valenza percettiva, in cui si incrociano finezza e incisività, grinta e suadenza, caratteristiche che si combinano di volta in volta per dare voce a un ventaglio di opzioni che svaria dall’eleganza più stilizzata al temperamento più caratteriale.
In Italia, per mia esperienza, c’è un bianco che condensa l’essenza stessa della tipologia, sebbene per anni sia rimasto nelle retrovie, schiacciato dal peso del suo importante passato: si chiama Gavi ed è prodotto con l’uva cortese in una fetta di Monferrato che sente il vento e il profumo della Liguria. Un vino privo di forza d’urto e anzi lieve come una piuma, e per tale ragione capace di “sentire” ed esprimere le caratteristiche dei diversi luoghi d’origine: la zona di Monterotondo darà un Gavi di norma più teso, Rovereto un Gavi più fibroso, la Lomellina un Gavi più aggraziato. Nella foto, la mano di Pierluigi Bergaglio, titolare dell’azienda Nicola Bergaglio, mostra con fierezza un frammento di terra di Rovereto, dove nasce il suo “Minaia”. Il 2005, oggi maturo al punto giusto, è un bell’esempio di bianco italiano.

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