12 maggio 2012 | Francesco Falcone

Il vino di Hemingway

di Francesco Falcone
hemingway

Hemingway, come Napoleone e Garibaldi, amava lasciare tracce, anche minime, dei propri itinerari italici. E amava bere: i suoi romanzi sono super alcolici dalla prima all’ultima pagina, tranne forse Il vecchio e il mare (almeno tra quelli più noti), che però sapeva di salsedine come un buon Muscadet della Loira.

Tuttavia non ha mai citato un vino nostrano nelle sue opere: a parte le innumerevoli fidanzate italiane, il famoso pappagallo di Alassio e il suo amore per Lignano Sabbiadoro (di cui adorava i grandi spazi e la natura vivida e luminosa, sebbene oggi avrebbe non poche difficoltà a riconoscere in quella località i luoghi di cui si innamorò), non si sa quali fossero le sue preferenze vinose dalle nostre parti (chiunque abbia notizie in proposito, ci faccia sapere).

Di vino tuttavia se ne intendeva (e non solo di vino: il Brandy e il Gin in “Fiesta”, lo Champagne di “Oltre il fiume e tra gli alberi”, il Rum di “Avere e non avere”).

“Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo e una delle cose naturali del mondo portata alla massima perfezione, e offre un maggior campo di gioia e apprezzamento di qualunque altra cosa puramente sensoriale che si possa acquistare.

Si può passar tutta la vita con grande gioia a studiare i vini e a perseguire l’educazione del proprio palato, e via via il palato diventa più educato e capace di apprezzamento e si accresce continuamente la gioia e l’apprezzamento del vino anche se magari si indeboliscono i reni, incomincia a dolere l’alluce e a irrigidirsi le giunture delle dita fino a che, proprio quando lo si ama di più, il vino viene assolutamente vietato.

Proprio l’occhio, che all’inizio è unicamente un sano strumento, diventa capace, anche quando non è più così forte ed è indebolito e logorato dagli abusi, di continuare a trasmettere al cervello una maggior gioia in virtù dell’esperienza e dell’abilità a vedere che ha acquistato.

Tutti i nostri corpi si consumano in un modo o nell’altro e si muore, e io preferirei avere un palato che mi dia la gioia di godere pienamente un Château Margaux o un Haut Brion, anche se gli eccessi a cui mi sono abbandonato per conseguirlo mi hanno procurato un fegato che non mi consente di bere Richelbourg o Corton o Chambertin, piuttosto che avere i ferrei intestini della mia fanciullezza quando tutti i vini rossi mi riuscivano amari tranne il Porto, e il bere consisteva nel processo di buttar giù abbastanza roba da sentirsi eroici.

Naturalmente si tratta di evitare di dover rinunciare completamente al vino proprio come, con l’occhio, si tratta di evitare di diventar cieco. Ma in tutte queste cose ha gran parte la fortuna, e nessuno può evitare la morte con questi sforzi, o sapere a quale uso può reggere una parte del suo corpo finché non l’ha provato”.

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