28 marzo 2012 | Francesco Falcone

La Gallura

di Francesco Falcone
gallura

Granito che sale da chissà dove avvolgendosi in alte onde, come un mare in tempesta. È il primato della natura che ci abbatte e ci domina, una forza primitiva che riesce a sopraffarti, al cui cospetto si resta ammaliati. La Gallura più vera è così irruenta e nascosta da sembrare essere stata inghiottita da un terremoto preistorico: il suo volto è sensazionale ma giace sotterraneo, ricoperto da strati di pietre e di glamour, di luoghi speciali e di luoghi comuni.

Una terra impossibile da riconoscere se non ne respiri il suo maestrale, che sa di sale e roccia, e se non vivi le sue giornate, candide e spruzzate di brezze all’alba, focose e rosse corallo al tramonto.

Dietro il sipario di uno spettacolo mondano che riempie di banalità le copertine dei giornali di gossip, si celano angoli incontaminati che sanno meravigliare il viaggiatore in cerca di paesaggi fuori dal tempo. La vera Gallura non ha eguali: né tropici, né atolli corallini possiedono un fascino altrettanto superbo.

Gli scenari rocciosi e surreali di Aggius, l’arida imponenza del Monte Limbara, le forme immaginifiche create dai sassi di Capo Testa, le punte granitiche che coronano il borgo di San Pantaleo, gli “stazzu” dispersi nell’immensa campagna, le sabbie rosa di Badesi, e poi la gente del posto, di cordialità sorprendente.

Della Gallura mi attrae il cielo puro come cristallo, i graniti che si fanno specchi e i cui giochi di luce sono come lampi che ti abbagliano. Ti spiazza, in una terra mediterranea, non vedere distese argentee di ulivi, ma aridi boschi di sugherete, come nella campagna portoghese cara al grande Antonio Tabucchi, che da poco ci ha lasciati.

Stupiscono le temperature che si fanno quasi montane di notte e mai bollenti di giorno. Ideali per il vino bianco. Un bianco che si chiama Vermentino, figlio legittimo e prediletto di tutto il Mediterraneo, ma che la Gallura è capace di nutrire a modo suo, consegnandoli una faccia e un corpo autenticamente sardi e dunque riconoscibili.

Per i migliori Vermentino di Gallura provo un debole giustificato dal suo mite appeal sudista. Ha un bel modo di mischiare le carte: sa essere tanto grasso e consolatorio, quanto vivo di sapori forti, segnato vieppiù da una mineralità nobilissima e trainato da una sapidità reale.

Mai troppo acidi, sono vini che sanno incidere il palato con una traccia salina ben sottolineata, e chiudono lo sviluppo con un fondo amarognolo che non è mai veramente amaro, è solo qualcosa che sta a metà strada tra la mandorla cruda e un vibrante lato iodato/metallico.

Nonostante i suoi profumi richiamino con frequenza l’agrume, le pesche e le erbe aromatiche, il suo varietale non è ingessato come buona parte dei sauvignon nostrani, perché l’agrume è più dolce e sfaccettato, e l’erbaceo più aristocratico e balsamico: salvia, basilico, capperi, più un lampo resinoso di lavanda. In evoluzione, dopo un paio d’anni di affinamento in bottiglia, la timbrica minerale si fa più netta e ricorda gli idrocarburi dei riesling ma con un accento più marino, più esotico.

I migliori Vermentino di Gallura sono bianchi caldi, quasi dolci e pastosi in attacco; foderano il palato, non sono certamente delle piume, eppure raramente appaiono pesanti, indigesti; sono ricchi, maturi, intensi e godibili da bere.

L’alcol in questi vini è il vero combustibile: non ingombra il naso, non elimina i dettagli e le sfumature della trama gustativa, non ne limita l’estensione in fase di allungo. Al contrario alimenta la spinta aromatica, sostiene la tensione al palato, amplifica la persistenza dopo la deglutizione.

Peccato che ancora oggi ci sia la sinistra tendenza a produrre troppo – anche quelli bravi ogni tanto ci cascano – così finisce che certi vini buoni, risultino solo buoni e non buonissimi. Così come certi vini di vigna, fedeli al proprio terroir, qualche volta non hanno il fondo necessario per spiccare definitivamente il volo.

Come in tutta la Sardegna del vino anche in Gallura esiste il fenomeno delle grandi cantine sociali e dei grandi commercianti. Nonostante il livello qualitativo sia mediamente soddisfacente e comunque in linea con quello che il mercato si aspetta dai vini di questa denominazione, una presenza così massiccia di grandi gruppi rischia di omologare, di coprire le scintille, di non favorire la crescita di nuovi talenti; rischia in ultima analisi di soffocare una spinta innovativa e un adeguato ricambio generazionale.

Questo perché le cantine sociali – e gli stessi négociant – pur svolgendo bene il proprio compito, devono per scelta di campo badare prima di tutto alle esigenze commerciali, senza rischiare, senza potersi permette il coraggio della personalità. Un atteggiamento che per quanto giustificato, a lungo andare conduce a un appiattimento di stili, di idee, di generi.

Il vino gallurese non vive dunque per la qualità a tutti i costi: tantissime le interpretazioni semplici e scontate, appiattite dalla tecnica. Che poi, paradossalmente, sono anche quelle più diffuse durante le calde giornate d’estate, sono quelle che hanno creato il mito del “vinodavacanza” e con esso la sua immagine stereotipata. Un’immagine che certo soddisfa gli appetiti più commerciali dei produttori, ma che d’altro canto penalizza l’immagine di un terroir le cui potenzialità meriterebbero ben altra considerazione.

Non c’è dubbio che una denominazione ha bisogno della regolarità, della continuità, dei numeri, dei prezzi accessibili, di una comunità soddisfatta; ma deve pure nutrirsi di genio, di novità, di interpreti personali, di differenze che piacciono e dividono e che per tale ragione appassionano. Mi auguro che il futuro porti qualche cambiamento in tal senso.

Nella ristretta cerchia dei bianchi galluresi di alto livello c’è un’etichetta che mi seguo da tempo: si tratta del Superiore Renabianca Vendemmia Tardiva. L’azienda Li Duni, con la complicità del bravo enologo consulente Dino Addis, lo produce a partire da vecchi alberelli piantati su piede franco nelle aride sabbie di Badesi (vedi foto), a nord del comprensorio, lungo la costa che si affaccia sull’Isola dell’Asinara.

Il 2007 offre un profilo definitivamente evolutivo, ma non molla: e se il naso non è più nitidissimo (con l’alcol che tende a farsi sentire un po’ troppo e il frutto ormai sopraffatto dalla mineralità), sa riscattarsi completamente al palato, grasso, saporito, elastico e ampio nella persistenza.

Per pochi intimi, un Vermentino che richiama appieno la sua terra.

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