2 marzo 2012 | Alessandro Masnaghetti

Lo Champagne di La Bruyère (Benoit Lahaye 2002)

di Alessandro Masnaghetti
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L’inizio e il declino dell’amore si avvertono nell’impaccio che si prova nel trovarsi soli insieme, ha scritto Jean de La Bruyère. Così come, aggiungo io, nel massimo della passione dell’amore si vorrebbe essere soli insieme, senza impacci, escludere tutto e tutti, come sperano costantemente le giovani coppiette in amore.
Ovviamente, questi stati d’animo sono estendibili a qualsiasi cosa animata e non, che sia un oggetto, che sia arte, che sia vino. Ed a me è capitato ieri di provare questa sensazione, con uno Champagne di Benoit Lahaye, il suo millesimato 2002, con cui avrei voluto essere solo mentre purtroppo non lo ero.
Un po’ frustrante.

Purtroppo capita che l’energia, la vibrazione e la passione che mi spinge a condividere bottiglie con amici e conoscenti possa trasformarsi in un boomerang Fantozziano (cfr Scuola di Ladri, Italia 1986, Neri Parenti) e mi becchi nonostante i miei tentativi di nascondermi. Un po’ mi dispiace se ad uno dei miei commensali non piace un vino che ho stappato. Lo nascondo bene, credo, ma ci rimango un po’ male.
Mi dispiace molto di più se non gli piace, ma continua a berselo. E pure un bicchiere dietro l’altro.
In queste situazioni un poco m’innervosisco. Giusto un poco. Perché fin quando non ti piace, amen, posso anche rassegnarmi all’idea, ma perché te lo devi bere se non ti piace?
Masochista?

Mi sono ricordato di La Bruyère per una strana associazione di immagini che mi ha riportato alla mente un personaggio, Champagne, di una commedia di Molière, L’Amour médecin. Fu rappresentata a Parigi nel 1665 per la prima volta. Jean aveva 20 anni.
Erano quelli i tempi della Querelle sul gusto tra Antichi e Moderni: da una parte la crisi delle regole classicistiche e delle utopie oggettivistiche, dall’altra la sensibilità soggettiva.
E fin qui, mi pare buon senso. Insomma non discuto che lo Champagne che piace a me possa piacere meno ad un altro. Come ebbe a scrivere proprio lo stesso La Bruyère: fra il buon senso e il buon gusto c’è la differenza che intercorre fra la causa e l’effetto.
Aveva naso denso e fitto, sbarazzino e giustamente maturo al contempo. Bocca gentile, briosa e asciuttissima in chiusura. Aveva quel “non so che” che rapiva e che, come diceva Jean, elevava il sentimento a giudice ultimo. Ché il gusto, sosteneva La Bruyère, è legato al sentimento del bello, alla capacità di afferrarlo e suscitarlo, di portarlo sul piano comunicativo della conversazione: quest’ultima intesa come arte sottile che richiede educazione ed esercizio.
Già. Aveva ragione Jean, ma ne aveva anche Bouhours che legò quel certo “non so che” e il gusto al concetto di bel esprit. Proprio quello che ci vuole per non dire un paio di paroline a certi commensali masochisti.

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