25 febbraio 2012 | Francesco Falcone

Cirò rosso Superiore Ripe del Falco 1987, Ippolito

di Francesco Falcone
falcocirò

Ti aspetti una brulla nudità sciroccosa, un celeste esotico picchiettato dal verde della macchia e dal rosso dei peperoncini stesi a seccare (il famoso doping di Rino Ringhio Gattuso) e invece dovunque mucchi di mattoni, laterizi e scarti di materiale edile abbondonati lungo la strada.

Ti aspetti una terra baciata da Dio e dal Sole (o dal Dio Sole) e invece ecco una terra di nessuno nelle mani di tutti. Ruderi di case, capanne di cemento, paesini senza capo né coda, senza inizio e senza fine, e un incessante stillicidio di palazzi condominiali costruiti con sciagurata improvvisazione.

È la cultura del geometra di “alberoniana” memoria, è la costa jonica del Crotonese e del Cirotano: un luogo potenzialmente meraviglioso e brutalmente sciupato; un mare piatto e sudamericano che da solo non basta a dare ordine e senso alla cose, che da solo non basta a frenare la speculazione edilizia e il terzomondismo civico.

Chi ha avuto l’opportunità di percorrere quel tratto stradale che da Sibari conduce fino alle porte del comprensorio Reggino, si sarà reso conto in concreto di che cosa significhi “mancanza di un progetto”: di un governo che funzioni, di una programmazione, di uno sviluppo armonico, di vere scelte politiche: questo disastro è tutto lì, in quei duecento e passa chilometri di occasioni mancate.

Per fortuna che c’è il Cirò. Quello, almeno nelle mani giuste, è un vino che funziona, un vino mediterraneo che non ha nulla a che vedere con lo stereotipo del nero macho/sudista: al confronto sembra un rosso pallido e magro, vestito con abiti lisi e sbrindellati. Eppure i migliori, grazie alla tenacia dell’uva gaglioppo, possiedono l’addominale tonico e gli attributi di Michael Fassbender.

Basta provare l’ultima versione di Francesco De Franco, il Classico Superiore 2009 per rendersene conto. Ma il Cirò più buono che abbia mai bevuto è il Riserva Ripe del Falco 1989 della famiglia Ippolito. Oggi a pranzo ho riprovato l’ultima bottiglia pescata nella mia cantina, una grande conferma. Olfatto di terra e sottobosco nobile, sorso salato e terroso, dotazione tannica puntiforme, allungo solido e ampio respiro in persistenza. Un’interpretazione di alto profilo che prova a farmi dimenticare, almeno in parte, l’immagine sciatta e sfilacciata della sua terra.

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