21 gennaio 2014 | Francesco Falcone

Maurizio Castelli, il sangiovese e il Chianti Classico. Intevista vintage

di Francesco Falcone
maurizo castelli

Veterano tra gli enologi e gli agronomi toscani in attività, consulente di riconosciuta fama (non solo in Toscana e non solo in Italia: Nuova Zelanda, Australia e Cile fanno da tempo parte del suo raggio d’azione) e per molti anni compagno nella vita e nel lavoro di Giovanna Morganti (vignaiola di Castelnuovo Berardenga oggi adorata dagli appassionati del vino naturale), Maurizio Castelli è considerato uno dei più fini conoscitori del sangiovese. Nella primavera del 2005 lo incontrai per conoscere una sua opinione sulle possibili interazioni tra il vitigno e il vasto territorio del Chianti Classico, la denominazione nella quale più di tutte Maurizio ha registrato le differenti “tonalità” espressive di cui la varietà si fa portatrice, sebbene nel suo prestigioso curriculum professionale non manchino collaborazioni con alcuni dei più validi produttori di Montalcino e Montepulciano. L’intervista, finora mai pubblicata su Enogea, è una preziosa testimonianza per gli appassionati e un piacevole ricordo per il sottoscritto.

Francesco Falcone: Al di là dei disciplinari di produzione e delle scelte stilistiche di ciascun produttore, il sangiovese e il Chianti Classico appaiono agli occhi degli specialisti come un binomio inscindibile. È d’accordo?

Maurizio Castelli: Il sangiovese è in realtà tra le uve più coltivate nel mondo (credo oltre 100.000 ettari) e in Italia è presente ovunque, da nord a sud, e da est a ovest: per questa ragione non ne farei una questione solo chiantigiana. Oltretutto si tende a sottovalutare – e addirittura a ignorare – che in Chianti Classico il sangiovese è storicamente considerato un vitigno da “blend”, godendo peraltro di alterne fortune: intorno alla fine del 1700, pur essendo già piantato, era surclassato dal canaiolo nero (il vitigno principale all’epoca) e si contendeva le posizioni di rincalzo al pari di altre cultivar (anche a bacca bianca) le cui sorti negli ultimi quarant’anni hanno vissuto periodi di profonda decadenza o di completo abbandono. Penso al mammolo, al foglia tonda, al canaiolo bianco, alla malvasia e al trebbiano.

FF: Dunque il primato del sangiovese quando si concretizza?

MC: A partire da metà ’800, grazie alla lungimiranza di Bettino Ricasoli. Solo dopo la sua famosa “ricetta”, il sangiovese assunse il comando della base ampelografica, fino ad arrivare alla soglia dell’80-100% nella proporzione degli uvaggi, a seconda dei risultati enologici che si volevano ottenere.

FF: Mi racconta quali sono le peculiarità del vitigno? I suoi pregi e i suoi limiti?

MC: Il sangiovese è un vitigno antico, estrusco, naturalmente generoso e che per tale ragione occorre frenare, tenere a bada: solo facendolo “soffrire” (più di quanto già si faccia di prassi con altre uve) può dare vita a rossi di qualità. In campagna è peraltro assai esigente: sensibile ai cambi di direzione, di esposizione, di suolo, vive in stretta simbiosi con il proprio terroir, ma proprio per questo ne è profondamente condizionato. Un po’ come il pinot nero in Borgona e il nebbiolo nella Langhe (dove però da secoli esistono vini da monovitigno e dunque una serie di cloni e di studi pronti a sostenere qualsiasi scelta agronomica), dona vini piuttosto austeri nei profumi (che si arricchiscono nella fase terziaria della loro vita) e ha poca stabilità nel colore, un fattore, quest’ultimo, che lo predispone a invecchiamenti precoci. In un periodo in cui il modello di riferimento mondiale era quello bordolese, soprattutto negli anni 80/90, questi limiti (se di limiti si può parlare) sono stati colmati accompagnandolo con uve dotate di più intensità olfattiva e di maggiore stabilità colorante.

FF: Nel Chianti Classico può offrire risultati sensazionali, è la storia che ce lo insegna. Tuttavia il numero di Sangiovese in purezza è ancora limitato. Come mai?

MC: per i motivi che ho già esposto prima: vuoi per la storia della denominazione (il Chianti Classico non è mai stato prodotto solo con sangiovese), vuoi perché questa varietà reclama notevoli sforzi agronomici e impone una notevole disciplina nella sua gestione. Su colline come quelle del Chianti Classico può dare risultati straordinari sia sul piano della finezza di espressione (la florealità e la mineralità dei profumi), sia dal punto di vista tannico (per ritmo e grana), sia in termini di longevità (in alcuni casi eccellente), ma tutto ciò si ottiene solo a prezzo di cure scrupolose, frequenti e diverse da vendemmia in vendemmia.

FF: il Chianti Classico è un territorio molto esteso e il sangiovese come detto un’uva molto sensibile alle diverse anime del territorio. Se volessimo sintetizzare le principali espressioni chiantigiane, lo chiedo per fare un po’ di chiarezza, sarebbe possibile?

MC: possiamo provarci, ma non è facile, perché oltre alla matrice dei suoli, gioca un ruolo importante l’altitudine e l’esposizione, per tacere del modello interpretativo delle singole aziende. Generalizzando, i terreni sabbiosi presenti nel lato orientale della denominazione (a Volpaia, per esempio) forniscono mosti profumati ma non strutturati, con una perdita precoce di materia colorante. Si ottengono così vini molto fini e succosi, più vicini a un Pinot Nero che a un Brunello di Montalcino per intendersi. Nella porzione meridionale della denominazione, dove invece insiste una forte componente tufacea (la zona di Monti è un caso emblematico, penso ai vini di San Giusto a Rentennano e di Badia a Coltibuono), il Chianti Classico assume per contro colori più marcati e caldi, e un corpo più robusto grazie a maturazioni polifenoliche più frequenti.

FF: chi frequenta la zona sente spesso parlare di Galestro e Alberese e del loro contributo decisivo nella “formazione” del Chianti Classico. Riesce a dirmi qualcosa di più?

MC: innanzitutto va detto che in Chianti Classico esistono anche terreni dove l’argilla è predominante: qui il sangiovese raggiunge ottime maturazioni tecnologiche, ma difficilmente è in grado di conservare quel carattere lievemente aromatico e quella scioltezza acido/sapida che rappresenta il marchio di fabbrica dell’Alberese. I vini che invece vengono prodotti sul Galestro (si tratta di argilloscisti), sono Di norma più chiusi e profondi, difficili da bere in gioventù, ma ottimi alla prova del tempo (un caso emblematico sono i Chianti Classico di Panzano).

FF: volendo sintetizzare, qual è la tessitura ideale perché un sangiovese esalti le proprie qualità?

MC: l’aria migliore sta nel cuore storico della denominazione e che, salvo eccezioni, ha in Castellina, Gaiole e Radda i comuni di riferimento. Qui l’argilla calcarea e la ricchezza di scheletro, donano una completezza e una complessità superiori, sottigliezze nei profumi e colori brillanti. Nella zona dei conglomerati invece, a nord della denominazione, penso soprattutto al comune di Greve in Chianti, si ha una buona dose di calcare, una forte presenza di sassi tondi portati dal fiume (il pillolo) ma anche una maggiore umidità e una maggior fertilità. In questo caso occorre frenare la vigoria con una scelta di portainnesti ben calibrata e con la pratica dell’inerbimento. Qui i sangiovese hanno concentrazione e volume alcolico, ma come si dice da queste parti minore sapore.

FF: sempre ragionando per sommi capi, quali sono le migliori condizioni orografiche, morfologiche e climatiche per le esigenze agronomiche ed enologiche del sangiovese?

MC: mi ripeto: stiamo parlando di una varietà che risente sensibilmente della qualità dei terreni così come delle esposizioni, della quota altimetrica e più in generale di clima, e dunque le generalizzazioni in questo caso non portano da nessuna parte. Posso dirti ciò che ci insegna il lavoro sul campo, la pratica, e la pratica ci insegna che le maturazioni delle uve devono essere lente e condizionate da forti sbalzi termici tra giorno e notte per ottenere vini di valore superiore. Per tornare alle esposizioni, questa varietà predilige quelle a mezzogiorno soprattutto dove la quota altimetrica si alza in modo importante (oltre i 400 metri s.l.m. o giù di là) e le valli si fanno più strette. Si può pensare anche a un sud-ovest quando il rapporto con l’altitudine si fa meno deciso e addirittura potrebbe andare bene un orientamento a sud-est quando le altitudini e la morfologia del territorio danno vita a zone più aperte, basse e luminose. Un grande vino ottenuto con l’utilizzo di un solo vitigno, e mi riferisco a un vino in grado di esprimere finezza e longevità, perché sia davvero tale deve essere figlio di un terroir felice, fortunato. Ma questo non basterebbe ugualmente se quel terroir non si conoscesse a fondo, nel dettaglio, nella frequentazione quotidiana: e il lavoro quotidiano del vignaiolo non si può sintetizzare in una formula, non si può generalizzare.

FF: è per queste difficoltà oggettive che il Chianti Classico è un territorio in cui è da sempre presente il blend?

MC: un grande limite per il sangiovese e per il suo utilizzo in purezza è legato alla scarsa selezione clonale, almeno fino a pochi anni fa. Tutti i vecchi vigneti del Chianti Classico (mi riferisco soprattutto a quelli degli anni ’70/80) sono stati piantati con materiale genetico di limitata qualità (penso all’R10), un clone predisposto perlopiù alla quantità. Oggi invece, buona parte dei cloni disponibili sono di sangiovese grosso ed è forte il rischio di ritrovarsi uva dal rapporto buccia/polpa a favore di quest’ultima, con mosti potenzialmente in deficit di sostanze nobili. In ogni caso una strada da non escludere è la selezione massale, con la quale ciascun vignaiolo può valorizzare il materiale più congeniale al suo sito e alle sue esigenze produttive.

FF: escludendo le ormai note varietà internazionali, quali possono essere i compagni ideali del sangiovese? Giovanna Morganti, ad esempio, sta facendo un ottimo lavoro sui cosiddetti vitigni autoctoni minori. Che ne pensa?

MC: la piattaforma ampelografica autoctona del Chianti Classico è ampia e alcune aziende la stanno finalmente riscoprendo. Si tratta di uve sulle quali non è stato mai fatto un vero e proprio lavoro di selezionale clonale, ma che nonostante qualche virosi (non sempre un limite, almeno dal punto di vista qualitativo) potrebbero apportare nel blend finale una serie di caratteristiche territoriali assolutamente da non sottovalutare. A questo proposito una lodevole sperimentazione è stata fatta a San Felice e non solo su uve del Chianti, ma su tutta una serie di vecchie varietà toscane. La speranza è che il lavoro svolto possa nei prossimi anni concretizzarsi in risultati concreti ed efficaci.

FF: quali sono le caratteristiche precipue delle vecchie uve chiantigiane?

MC: il colorino è un vitigno difficile (ancora più ostico del sangiovese), che stenta a maturare bene, ma che è capace di apportare freschezza, colore e tensione al vino. Il foglia tonda, anche questo di maturazione molto tardiva, ha la foglia larga e acini tondi e piccoli, una buona capacità colorante e profumi accattivanti. Il mammolo è un’uva generosa nelle rese e dona basi eleganti: ha la buccia sottile, il colore è essenziale e un potenziale olfattivo molto floreale. Il ciliegiolo, invece, regala mosti di buon frutto e vini immediati, diretti; tende però a un’eccessiva vigoria in campagna, e dunque occorre avere vigne vecchie per tenerne a bada la produttività. Il canaiolo nero, infine, un tempo come detto molto presente e molto ben considerato nel territorio, in passato si maritava quasi esclusivamente all’albero (per via del suo pessimo rapporto con il portainnesto americano) e di norma dona rossi di buona struttura, dal forte carattere speziato e di buon temperamento. Detto questo, al momento le conoscenze agronomiche di questi vitigni sono parecchio limitate e i vigneti piantati con varietà internazionali sono davvero tanti per pensare a un cambio di rotta repentino. La speranza è quella che nel tempo i vignaioli più coraggiosi diano l’esempio e mettano il territorio sopra tutto, senza accontentarsi di avere solo vigne belle e curate, ma operando le scelte agronomiche in base alla zona di appartenenza. Da qui l’esigenza di delimitare delle sottozone e di dare al sangiovese ciò di cui ha realmente bisogno. Banale, a patto di conoscere a fondo la propria terra.

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