20 dicembre 2013 | Alessio Pietrobattista

Champagne. Pinot Blanc de Blancs

di Alessio Pietrobattista
piollot pinot blanc

Schemi mentali, gerarchie di vitigno e cru: inutile negarlo, più o meno tutti siamo legati a degli intimi convincimenti. L’aver partecipato alla principale guida italiana a tema bollicine francesi, mi ha portato negli anni a costruire una serie di strutture, non rigidissime, ma con una solidità di fondo. Per esempio: il Pinot Meunier dà troppo spesso vini eccessivamente rotondi e accomodanti, il Pinot Blanc dà troppo spesso risultati trascurabili in Champagne e sono assai poche le versioni degne di interesse.
Generalizzazioni ovviamente, ma la pratica mi ha convinto che un fondo di verità ci sia. Non ho e non sento l’esigenza di rifarmi a questi schemi, ma in uno storico di degustazioni offrono dei validi punti cardinali con cui orientarsi. Ovviamente fino a quando scopri che tutto sommato le bottiglie e i manici che oscurano i satelliti di questo ipotetico navigatore, capitano con la regolarità dei sorrisi ebeti che ti si stampano sulla faccia. E tutti insieme tra l’altro, uno di seguito all’altro, con un “uno-due” quasi da ko. Il primo colpo lo conosco abbastanza, l’altro per niente ed è quello che tutto sommato mi ha messo una tastiera sotto le dita.
Il colpo visibile, ben assestato e sempre preciso, è quello di Christophe Mignon e il suo Brut Nature da Pinot Meunier. Un produttore che ho imparato ad apprezzare quest’anno e che già aveva lasciato quella tacca nella mente che difficilmente si cancella. Uno Champagne che nasce tra i vigneti di Festigny e Breuil (siamo nella Marna), dove trionfa il Meunier e poco si concede ai protagonisti più famosi della zona. Un olfatto che picchia forte sui registri verdi e aromatici, rossi nel frutto, scuro fino alla prugna e floreale di viola. Bocca che è una scudisciata acido-sapida, con la rotondità del vitigno che sembra lì di passaggio. Beh, questo lo conosco e non mi stupisce tutto sommato, ma fa sempre piacere incontrarlo.
La bottiglia successiva è quella nella foto. Pinot Blanc Extra Brut. Solo un uomo coraggioso come Roland Piollot poteva pensarlo.

Ma chi è Roland Piollot? È il classico caso per cui si usano frasi del tipo “È il fratello di…”, “È il cugino di…”, ecc ecc. Ebbene lui è il compagno di Dominique Moreau, della maison Marie Courtin, ben più famosa tra gli appassionati. Eppure da un anno a questa parte il buon Roland sembra aver messo la freccia: vini sempre più convincenti che confermano una crescita costante, come quella dell’ Aube, un terroir di identità propria e, soprattutto, in grado di scardinare la gerarchia dei Cru ben più blasonati di Reims e dintorni. C’è un filo conduttore nei suoi Champagne: una grande materia di fondo, una vinosità accentuata (soprattutto nei rosé) e un sottofondo minerale marcante. Perché in fondo l’Aube non è tanto più a nord di Chablis e Dijon non è affatto distante, tanto che molti dei viticoltori della zona, si rivolgono alle specializzazioni di enologia in Borgogna piuttosto che a Reims. E tutto sommato i risultati si sentono.
Cosa c’entra tutto questo con un Pinot Blanc Extra Brut? Forse nulla, o forse serve per capire che il sorriso ebete ha solide fondamenta. Perché trovarsi una lastra di sale e gesso sotto al naso, un incedere salmastro ondivago ma costante da cui emerge il limone, il fieno falciato, la clorofilla e la dolcezza del litchi e dell’uva spina, il melone bianco e lo zenzero fresco, già basterebbe per poter chiudere baracca e burattini e recitare il mea culpa. Invece arriva la bocca, dura, spigolosa, nessuna concessione alle morbidezze, di quelle che ti lasciano una scia di sale quasi fastidiosa per potenza, piccante e se vogliamo un po’ rustica nella bolla ma che, diamine, ci vuole, eccome se ci vuole!
Ecco, a proposito di schemi: l’Aube in toto sta sovvertendo i miei. Perché è un terroir per anni sottovalutato, considerato minore e, soprattutto, vince spesso sulla mano del produttore: le sensazioni salmastre, fortemente minerali, che diventano addirittura metalliche nei rosé, sono un indicatore importante, un descrittore che nell’assaggio ti guida, calice alla mano, e diventa ancor più evidente nelle comparate con altri territori. C’è ancora molto da approfondire e da studiare ma è sicuramente un punto fermo, diverso dai precedenti e che manda a carte e quarantotto fiumi di considerazioni fatte negli anni. E in fondo non mi dispiace.

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