3 ottobre 2012 | Giampaolo Gravina

Che gusto c’è*. Un libro sul gusto, anzi due

di Giampaolo Gravina
foto enogea 39 bis

Una riflessione “in punta di lingua” che confronta due diversi approcci al problema del gusto. Per fare attrito contro l’omologazione in atto e stimolare in chi degusta una più avveduta coscienza linguistica.

Per cominciare, una domanda: per quanti di noi, che a vario titolo abbiamo coltivato l’interesse per il vino fino a farne una ragione di lavoro e di vita (con approdi diversi, s’intende: produttivi o semplicemente hobbistici, commerciali o comunicativi), per quanti di noi la lettura di libri sul vino resta ancora un esercizio stimolante, se non una pratica imprescindibile del percorso di crescita? Passa ancora dai libri, ammesso e non concesso che sia mai transitata da lì, la curiosità per quei retroscena della degustazione che si ramificano nella storia e nella geografia, che sconfinano nella tecnica e nella scienza, che rimandano tanto a questioni teoriche di filosofia del gusto, quanto a opzioni pratiche, concretamente legate alle nostre abitudini alimentari?
In tutta franchezza, io credo che siamo in tanti a sentire ancora viva un’esigenza di letture mirate, coinvolgenti, capaci di nutrire questa insana passione per il vino allargando gli orizzonti della nostra consapevolezza critica. E sono pure convinto che la diffusione di internet abbia paradossalmente perfino potenziato questa necessità, sebbene nelle forme indisciplinate e contraddittorie che sono proprie della rete, non prive talvolta di insidiosi riflessi anarcoidi. Ma non è qui che voglio andare a parare. Mi preme invece sottolineare come la lettura di testi che mettono a tema il vino come interesse d’elezione, problematizzandone di volta in volta questo o quell’aspetto, meriti uno spazio permanente di approfondimento e di discussione, specie sulle pagine di
una rivista seria come Enogea. E magari questa è la volta buona per inaugurarlo, questo spazio: hai visto mai che tra gli aficionados del Masna ci siano più lettori che zie**?
Per complicarmi la vita, ho pensato bene di non limitarmi a recensire una singola lettura: proverò invece a rendere ragione dell’incrocio di due diversi testi sul terreno di un unico tema, sacrificando qua e là lo scrupolo di completezza nel ricostruirne le rispettive traiettorie, e isolandone per contro alcune parti nel tentativo di metterle in relazione e farle dialogare tra di loro. Il tema è quello del gusto: argomento quanto mai sfrangiato, come è noto, ma indagato nei due libri in questione con un approccio tutt’altro che generico. In particolare, nel saggio di Michel Le Gris Dioniso crocifisso (DeriveApprodi, 2011, € 16) è il gusto del vino a tenere banco, considerato sotto il profilo della sua standardizzazione “nell’era della sua produzione industriale”, come recita l’esplicito sottotitolo; mentre il Gusto di cui ci parla Rosalia Cavalieri nell’omonimo libretto (Laterza, 2011, € 12) merita davvero la G maiuscola, perché si riferisce non solo al gusto del vino, ma alla facoltà gustativa e al senso del gusto nella sua complessità, concentrando progressivamente l’indagine su quella cosiddetta “intelligenza del palato” che restituisce valenza cognitiva anche al più carnale e viscerale dei sensi. Ma andiamo con ordine: perché Le Gris ci annuncia la crocifissione dell’istanza dionisiaca? La riflessione proposta da questo singolare intellettuale del vino, filosofo di formazione, già critico musicale e oggi titolare a Strasburgo dell’enoteca Le Vinophile, si snoda per oltre 180 pagine ma non è difficile da riassumere: in sintesi, Le Gris colloca l’industrializzazione del vino all’origine sia di potenti fenomeni di standardizzazione che di un sostanziale impoverimento del suo gusto.
Messa così, si potrebbe obiettare che l’analisi non brilla particolarmente per originalità. E invece no, mi permetto di dissentire. E non solo perché il testo è stato pubblicato per la prima volta in Francia nel 1999, cioè dodici anni fa, quando questi discorsi erano ancora ben lontani dall’attuale, relativa popolarità; ma anche e soprattutto perché gli argomenti di Le Gris in tema di “servitù sensoriale” ricostruiscono con estrema precisione le coordinate di un’estetica gustativa banalizzata e addomesticata, entrando con persuasiva competenza proprio nel merito di quelle liaisons dangereuses tra le pratiche dell’odierno interventismo enologico e la correlata normalizzazione dei paradigmi del gusto. Sono queste le pagine a mio avviso più intense e riuscite del libro, dove l’autore, lasciando da parte le preoccupazioni di ordine filosofico sulla deriva del soggettivismo contemporaneo e sul declino di un mondo dominato dal mercantilismo tecnocratico, si concentra su quella vera e propria “tirannia dell’immediatezza”, di natura essenzialmente narcisistica, che presiede alla confezione di vini sempre più proni alle logiche del marketing. Che sono logiche per forza di cose conformistiche e banalizzanti. E si traducono nei vini secondo le modalità di una progressiva riduzione dello spettro dei sapori e delle sensazioni tattili, nonché della correlata semplificazione dei profumi, esacerbati attraverso una violenza aromatica che degenera spesso in caricatura.
Se le cose stanno così, il paesaggio gustativo dominante – così efficacemente ripercorso da Le Gris – possiede oggi i tratti rassicuranti di una sconfortante monotonia. E il suo lavoro di meticolosa ricostruzione dei diversi espedienti enologici utilizzati per assecondare la confezione di vini così noiosi, finisce per evidenziare le contraddizioni di una “medicina del vino” che diventa calcolo del gusto.
Come non riconoscere in questa analisi la deriva di larga parte dell’enologia contemporanea? Un’enologia dove le giuste preoccupazioni per la sicurezza e l’igiene dei vini sono spesso pervertite in ossessioni, e si traducono in una rincorsa a sanare preventivamente ogni eventuale difformità da quel modello gustativo tanto artificioso e insopportabile che ammette solo vini dal tatto levigato, dai profumi amplificati e dal gusto dolciastro. Un modello che non prevede se non le sensazioni più ovvie e accattivanti, concentrazione e morbidezza in primis, restando per contro del tutto refrattario a ogni esigenza di tensione, di sfumatura, di dissonanza gusto-olfattiva. E contro il quale Le Gris fa valere tutta la sua vis polemica, nella convinzione che “vinificare non è fabbricare” e che il piacere legato al gusto del vino non possa venire predeterminato da una formula, né garantito da un protocollo.
A dare profondità e sostanza scientifica a questa lettura per così dire “tragica” dell’evoluzione del gusto (o meglio: della sua involuzione!), dove per richiamare le parole di Le Gris «il morto afferra il vivo», in una «notte dell’estetica in cui tutti i vini sono grigi», si rivela molto utile l’altro libro di cui vorrei riferire. Lo ha scritto una studiosa di problemi linguistici, Rosalia Cavalieri, che insegna Filosofia e teoria dei linguaggi all’Università di Messina, e a cui dobbiamo un precedente lavoro completamente consacrato all’olfatto (Il naso intelligente, Laterza, 2009, € 12). Come già in quella ricerca, dedicata a esplorare l’atto dell’annusare considerato alla stregua di un vero e proprio processo di conoscenza, anche qui l’autrice prende le mosse dall’esigenza di smontare il pregiudizio che vorrebbe il gusto relegato al rango di senso “minore”. Un pregiudizio alimentato per secoli dalle culture filosofico-scientifiche dominanti, che hanno avvalorato una gerarchia dei sensi centrata sul primato cognitivo della vista; ma anche un pregiudizio che oggi sta finalmente vacillando, dietro l’impulso delle ricerche sul funzionamento sensoriale e percettivo del gusto, sulle aree cerebrali e sui sistemi neurochimici che integrano i differenti segnali interni, attraverso i quali il cervello riceve ed elabora le sue informazioni.
Come sottolinea la Cavalieri, le possibilità aperte negli ultimi anni dalle tecniche di brain-imaging e neuroimaging di guardare nel cervello e di osservarne l’attività non solo quando ascoltiamo una musica o guardiamo un’immagine, ma anche mentre annusiamo e gustiamo un cibo e un vino, hanno permesso di ricostruire l’intero percorso che conduce alla sensazione del sapore di ciò che mangiamo o beviamo, restituendoci una vera e propria mappa dei distretti cerebrali attivi quando i recettori gusto-olfattivi sono al lavoro. E devo confessare che questa parte del libro, dedicata a riconfigurare una fisiologia del “cervello che gusta”, mi ha letteralmente appassionato, capace come è di tenere insieme una ricognizione degli aspetti necessariamente più tecnici e specialistici (dall’interazione del gusto col sistema trigeminale, al ruolo dei cosiddetti “neuroni specchio”, fino alle rivoluzionarie ricerche sulla sensorialità fetale) con un’esigenza di chiarezza sempre viva e gestita in modo davvero esemplare.
Ma non è qui che il libro mostra a mio avviso le più stimolanti connessioni con la riflessione di Le Gris: non va infatti dimenticato che l’autrice è una linguista e, da studiosa seria e documentata, non si sottrae al confronto con le specifiche competenze linguistiche che il gusto sempre più richiede. Così, nell’ultimo capitolo ironicamente intitolato “Tra palato e parlato”, la Cavalieri s’interroga sullo statuto della degustazione, per insistere sulla «vocazione linguistica dell’atto del gustare»; e concludere che anche il gusto «come gran parte delle facoltà bio-cognitive condivise con gli altri animali, deve la sua unicità alla presenza di una mente linguistica che lo riplasma su una misura umana». Identità sostanziale e differenza peculiare del gusto sembrano perciò convergere nella direzione di questa insostituibile relazione tra lingua che assaggia e lingua che comunica, come se proprio all’intersezione tra palato e parlato il gusto potesse riscattare quel bonus di condivisibilità che ne definisce lo specifico plusvalore di umanità.
Le parole, dunque. Ma quali parole?
Non è forse proprio nella capacità di selezionare le parole più adatte a tradurre l’esperienza interna del degustare che prende forma quell’originale abilità performativa che distingue il talento dei più convincenti interpreti del vino? Io ne sono convinto, così come resto convinto della necessità che queste parole smettano di proporsi come mere riformulazioni delle impressioni gustative, ingenue descrizioni della vitalità sensoriale.
C’è bisogno di parole capaci di rivendicare dignità interpretativa e di farsi carico, per quanto possibile, di quella consapevolezza critica cara a Le Gris, per mettere in fuorigioco quel gusto seduttivo ma addomesticato, spettacolarizzato ma impoverito che va contagiando anche il vino.
Parole vibranti, come i vini che amiamo degustare.

* da Enogea 39

** Peter Bichsel, Al mondo ci sono più zie che lettori, Marcos y Marcos, Milano 1989

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