27 aprile 2012 | Giampaolo Gravina

Il degustatore consapevole: una risposta di Giampaolo Gravina

di Giampaolo Gravina
gravina

Francesco carissimo

sono due giorni che me la faccio ronzare in testa, ma a me questa equazione notizia = scrittura non mi riesce a convincere

il tuo pezzullo ha tante anime, e il nucleo di genuina messa-in-questione dello statuto del degustare, che avevi già iniziato a esplorare in alcuni testi precedenti, resiste anche qui e anzi si intensifica di perplessità e obiezioni:

però, se mi è piaciuto il passaggio in cui provochi il lettore confessando che ti senti addirittura peggiorato e non vai più alle Anteprime, ho per contro trovato un po’ deboli le motivazioni per cui dici di continuare a usare i punteggi: o meglio, le motivazioni sono proprio quelle che dici tu, cioè per convenzione, perchè altri più accreditati di noi li continuano a usare, etc.

ma se considerate con la stessa radicalità che fai tua in altri passaggi del ragionamento, queste motivazioni lampeggiano ai miei occhi in tutta la loro debolezza

la verità per me è più brutale: continuiamo a usare il punteggio per conformismo e perchè ci dà da campare! ma non c’è difesa d’ufficio che tenga, il punteggio non è mai al servizio del giudizio, è piuttosto una scorciatoia critica che contiene residui non solubili di arroganza e di paternalismo

a tutti noi (me per primo) che non abbiamo avuto in questi anni la determinazione di distaccarcene, dovrebbe essere quanto meno chiaro che il ricorso al punteggio è teoricamente indifendibile

anzi, se considerato in sè e per sè, il punteggio è un freno allo sviluppo articolato del giudizio, e dunque è un freno a quel percorso di crescita della consapevolezza che tu (insieme ad altri colleghi e compagni di viaggio, tra cui mi piace pensarmi coinvolto) con molta onestà hai cercato di seguire in questi anni e di mettere a tema in questi tuoi ultimi scritti

più meticoloso, più serio e autocritico si fa il lavoro in sede di assaggio (e qui tu sei davvero un esempio, amico mio) più dovrebbe rivelarsi lampante e inoppugnabile la sostanziale inadeguatezza di ogni algoritmo alfanumerico: è proprio lì, tra le pieghe di quella intimità che il vino reclama, tra gli snodi espressivi che solo uno scrupoloso supplemento di indagine può rivelare, che il lavoro della scrittura si fa indispensabile

ma è un lavoro di analisi e di commento, quello della scrittura: non sarà mai una notizia la scrittura, non avrà mai l’autoevidenza di un titolo né l’univocità di un fatto

la notizia impone immediatezza, distacco, neutralità: altro che empatia …

è solo un secondo sguardo che lascia emergere l’esigenza del lavoro critico, un’esigenza che unicamente la scrittura può esplorare, con la pazienza e la fatica che le sono necessarie e connaturate

decisivo mi appare a questo proposito il richiamo alla forma che tu suggerisci a un certo punto del tuo testo: la scrittura è un dialogo ininterrotto con l’esigenza del dare e del prendere forma, un’esigenza insopprimibile dell’interpretare inteso come un “formare”; il punteggio per contro è de-formante, tradisce la natura di flusso, di itinerario, di processo che la scrittura critica rivendica

le tue riflessioni mi hanno rivelato una singolare sintonia (empatia?) con alcuni temi dell’Estetica di Luigi Pareyson, un filosofo che ha lavorato a lungo all’idea di una teoria della formatività (fu anche maestro di Umberto Eco, negli anni ’50), ma di cui si parla poco nel dibattito attuale (non fa più notizia)

mi piacerebbe fartene leggere qualche pagina, se ne avrai voglia: magari su in Langa, a metà Maggio, tra un nebbiolo e l’altro (anche Pareyson era del Cuneese …)

un abbrazz
Giampòl

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