2 giugno 2012 | Francesco Falcone

Brindisi e una bottiglia di ricordi

di Francesco Falcone
brindisi

Brindisi. Che strana città. Da ragazzino la frequentai per un’intera estate, quella del 1990: ci abitava la prima “morosa” della mia vita. Da Gioia del Colle, il mio paese, ci arrivavo in corriera o in moto, almeno due volte a settimana. Di tanto in tanto, quando gli ormoni reclamavano il loro spazio, anche di più.

Brindisi era, e forse lo è ancora, una città dal curioso destino estivo. Tutti ci passavano, nessuno si fermava. Cinquemila persone al giorno, quasi tutti giovani, aspettavano il traghetto per la Grecia bivaccando nel nulla assoluto (non so se è ancora così, ventidue anni dopo).

Esistevano, a quei tempi, un ostello della gioventù e un campeggio: come dire un minimo di struttura idonea al turismo di transito, quello degli zaini e dei sacchi a pelo, poco disposto a prenotare e pagare una stanza d’albergo e dunque in perenne ricerca di ricoveri economici, nonché di agile utilizzo.

Le migliaia di giovani di passaggio a Brindisi, si stravaccavano sulla scalinata “Virgilio”, al termine della via Appia, sbrodolandola accuratamente di rifiuti di ogni genere, con particolare predilezione per i gustosi prodotti locali: melone giallo e pomodori in testa. Oppure si sedevano lungo la banchina del porto, con le gambe a penzoloni, giocando a chi lanciava più lontano noccioli di pesca, lattine di Coca Cola, mezzine di acqua minerale e cartocci da asporto, rigorosamente unti.

Fresca, pietrosa, e anche pulita nell’angiporto antico, la Brindidi “annuale”, la Brindisi della mia vecchia “Fiammetta” (non una piccola fiamma: si chiamava proprio Fiammetta), con le sue chiese barocche e le sua case aperte direttamente sul selciato, faceva finta di niente, limitandosi a consegnare il porto, per l’intera estate, a quella massa di giovani senza volto, vestiti in braghe corte, canottiera modello basket e adidas ai piedi. Un sentimento ricambiato, come è ovvio, da altrettanta indifferenza da parte dei viaggiatori: come dire, cultura turistica e cultura locale si erano completamente estranee. Erano come separate, sbarrate, si sfioravano e basta.

Con questo ricordo, patinato dal tempo e ricamato da un filo di emozione, tornai a Brindisi una decina d’anni dopo, questa volta per visitare una cantina nuovissima e ambiziosa, quella di Luigi Rubino. È lì che incontrai per la prima volta Luca D’Attoma, a quei tempi uno dei consulenti più gettonati d’Italia: quel giorno era in azienda per definire i tagli dei nuovi vini insieme all’enologo Luca Petrelli, e si fermò a degustare qualcosa con noi. Terminata la visita, prima dei saluti, acquistai sei bottiglie del Sangiovese Terra dei Messapi 1999 (oggi non più in catalogo), il miglior rosso assaggiato in quel pomeriggio di marzo del 2001.

Ieri sera, undici anni dopo, per curiosità e per necessità, ho stappato l’ultima bottiglia di quel lotto, ritrovata per caso in un angolo impolverato del garage dei miei genitori. Una bottiglia ormai esausta, fortemente penalizzata dall’ossidazione: un liquido senza rilevanti qualità organolettiche, che tuttavia ha aperto una finestra di ricordi. E che mi ha permesso di scrivere queste righe.

La morale, laddove ve ne fosse una, è che un vino, per quanto mediocre, può consegnarti, in qualsiasi momento della tua vita, una chiave di lettura per riflettere ed entrare dentro te stesso, portando a galla storie e sensazioni assopite dal tempo.

Il vino che conosci, che hai frequentato, a cui per certi versi sei affezionato, è sempre vivo, anche quando i suoi sapori e i suoi profumi sono ormai privi di un alto valore sensoriale.

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