16 gennaio 2012 | Francesco Falcone

Châteauneuf-du-Pape

di Francesco Falcone
Domaine MayardPhotos: gilles Fonlupt

Châteauneuf-du-Pape la conosco bene: non so perché né quando scattò la scintilla, ma è stato il mio primo amore tra i vini di Francia, direi al pari di Montalcino in Italia, a cui a grandi linee si avvicina (ma prorio a grandi linee). Nasce e si sviluppa oltre la pianura che fa capolino tra il Mont Ventoux e le colline del dipartimento del Vaucluse, nel Rodano meridionale, appena un quarto d’ora d’auto da Avignone, in un angolo di Provenza tutto macchia, vigna e maestrale. E’ un vigneto che lascia il segno: mediterraneo, vasto, omogeneo, spettacolare e fitto di aziende, alcune delle quali di consolidato prestigio: Beaucastel, Vieux Telegraphe, Rayas, Clos des Papes, Bosquet des Papes, La Mordorée, La Janasse, Villeneuve, Grand Tinel, Pierre Usseglio et Fils – solo per citare quelle che ho avuto la fortuna di visitare più volte nella mia carriera.
Disteso lungo la famosa “Route D-17”, sulla sponda sinistra del grande fiume, il distretto tocca il comune omonimo più una porzione dei villaggi limitrofi: Courthézon, Bédarrides, Orange e Sorgues.
É un mondo di alberelli (localmente chiamati gobelet) dominato dalle rovine di una vecchia residenza papale: le piante non di rado sono centenarie (l’età media è di quaranta, cinquant’anni), ubicate su un altopiano di argille e sabbie ricoperto a macchia di leopardo dai famosi “cailloux roulés” (sassi tondi di dimensioni copiose che ricordano una palla da rugby), ideali per donare equilibrio (idrico, termico, minerale) ai numerosi vitigni coltivati.
Vitigni spesso sconosciuti, dai nomi bizzarri, che accompagnano come il sale e il pepe in cucina le tre uve principali: la pastosa grenache noir (che rappresenta i due terzi della produzione), la fenolica mourvèdre e la fruttata – e coloratissima – syrah.
Un mondo di cru, anche. Più di cento se ne contano (alcuni dei quali eccellenti: su tutti La Crau), che a dispetto del loro valore specifico vengono per tradizione sacrificati in nome dell’assemblaggio – nonostante alcune rare selezioni parcellari sono davvero superbe. In totale gli ettari coltivati sono poco più di tremila e duecento (il 97% dei quali appannaggio di vitigni a bacca rossa) posti nelle mani di trecentoventi produttori, per un totale quattordici milioni di bottiglie commercializzate ogni anno.
La forte eterogeneità qualitativa che un tempo zavorrava l’immagine della denominazione (quando circolavano tantissime bottiglie mediocri, figlie di rese elevate e di vinificazioni approssimative), oggi è un problema quasi risolto. Almeno questo è quanto ho avuto modo di capire attraverso numerose visite d’approfondimento svolte sul territorio negli ultimi anni. Anni che in definitiva coincidono col periodo d’oro di Châteauneuf-du-Pape: è dalla fine dei Novanta che il comprensorio sta infatti raccogliendo quanto di buono è stato seminato nel decennio precedente e non c’è dubbio che la nuova generazione di interpreti locali sia la migliore che il comparto potesse augurarsi.
Come in Borgogna, anche se in scala ridotta, un nutrito gruppo di brillanti vinificatori scommette da tempo e senza compromessi sulla produzione di vini contemporanei: rossi tecnicamente impeccabili che non sacrificano nulla sul piano dell’originalità e dell’autenticità: è questa la vera differenza che separa gli attuali produttori da chi li ha preceduti, spesso più sensibili ad assecondare le esigenze del mercato americano.
I vini sono per questa ragione sempre più buoni, sempre più apprezzati dalla critica internazionale, sempre più ricercati dal pubblico degli appassionati. Altra svolta: si imbottiglia di più all’origine, i grandi volumi venduti in cisterna non ci sono più (e nessuno, per fortuna, sembra incline a rimpiangerli), sebbene il mercato dello sfuso rappresenti ancora una voce economica non trascurabile in seno alla denominazione. In campagna, poi, si lavora con una disciplina sconosciuta in passato e come ovunque c’è maggiore sensibilità verso una viticoltura più rispettosa dell’ambiente: oggigiorno in molti optano per un’agricoltura bio.
Come detto le rese sono sempre più basse: i viticoltori più bravi sanno che i rendimenti della grenache noir devono essere drasticamente abbassati per ottenere mosti di qualità: è un’uva che non sopporta l’approssimazione, senza potature severe fornisce basi mediocri, buone giusto per rossi alcolici (è una varietà che non ha problemi in tal senso) ma senza energia. Ne sappiamo qualcosa in Italia, dove tanti Cannonau di Sardegna prodotti in serie stentano a raggiungere risultati seriamente apprezzabili.
In cantina, dove il cemento è molto utilizzato sia per la vinificazione che per la maturazione (insieme alle botti grandi, meno usati sono invece i fusti di piccola taglia), l’aggiornamento della tecnologia ha migliorato i vini in termini di precisione e trasparenza (scongiurando quegli eccessi alcolici, di estrazione e di ossidazione che non sono rari nei rossi mediterranei) conservando al contempo i caratteri distintivi del territorio (il frutto prugnoso, le spezie, l’evoluzione tartufata, la freschezza sapida, la forte mineralità).
Il miglior Châteuneuf-du-Pape è un grande rosso “sudista”, capace di trasformare la potenza alcolica (le selezioni di punta spesso sfiorano i 16 gradi) in energia gustativa, di sfruttare la sua generosa costituzione per esprimersi in direzione di una vigorosa densità, di una stimolante carnosità, di una notevole longevità.
Su due piedi vi sembrerà un vino prevalentemente caldo e mobido, ma è solo apparenza: dietro la scocca sgargiante e il volume imponente palpita infatti una materia ricca di diramazioni sapide, una trama tannica importante, una notevole capacità di allungo.
E, aspetto ancora più eccezionale, sa mettere al servizio del cibo le sue peculiarità: è la sua inclinazione “gastronomica” che io amo particolarmente. Le sembianze di un rosso monumentale nascondono infatti una sensualità, una golosità, una facilità di lettura che si palesano soprattutto a tavola: è li che ti accorgi della suo talento più autentico, per me indelebile.
Anche perché il primo amore, si sa, non si scorda mai.

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