7 marzo 2012 | Francesco Falcone

Erasmo Castelli 2004, Maria Pia Castelli

di Francesco Falcone
mariapiacastelli

Ma dov’è finito il montepulciano?

Questa domanda me la sono posta non poche volte negli ultimi tempi.
Nessuno più ne parla, o quasi. Io stesso, ad esempio, non sono stimolato a scriverne.

Solo il Masna, che io sappia, negli ultimi anni gli ha dedicato tempo e dossier di prima mano (tra Abruzzo, Piceno e Conero). Eppure nella seconda parte degli anni ’90 il vitigno era assai ben considerato dagli operatori e i vini da esso ottenuti – declinati nelle diverse denominazioni e tipologie – godevano di larghe aperture di credito anche da parte della critica specializzata: molte riviste autorevoli gli dedicavano spazio e non pochi osservatori li paragavano, almeno nelle versioni più risolte e caratterizzate, a certi rossi del Rodano.

Il motivo di quel successo fu essenzialmente originato dalla naturale predisposizione dell’uva a donare vini di profilo “internazionale”: le sue bucce spessissime e lo straordinario rapporto quantità/qualità (con 140 ql/ha si possono ottenere fino a 4000 di polifenoli) si trasformano in rossi fitti nel colore (peraltro assai stabile nel tempo), di gran frutto (pieno, intenso e più o meno screpolato da sensazioni vegetali, speziate e cacaose), generosi nel peso e nel volume, mai in debito di freschezza e dotati di una trama tannica meno nobile ma pure meno impegnativa di altri vitigni italiani con cui talvolta si “accompagna”: penso soprattutto al sangiovese.

Dicevo che il suo mercato a quei tempi “tirava” come la squadra dei gregari della Saeco quando lanciava in volata Cipollini: in Abruzzo, ad esempio, dove rappresenta l’uva più coltivata, il numero degli imbottigliatori si decuplicò, la superficie vitata crebbe sensibilmente (una crescita stimata del 15% annuo fino ai primi anni 2000), l’entusiasmo dei vignaioli anche e questo suscitò vieppiù l’interesse di alcuni imprenditori di altri settori, che proprio in quella stagione decisero di investire in una denominazione – il Montepulciano d’Abruzzo – fino ad allora valorizzata al meglio solo da pochi interpreti di riferimento (Valentini, Pepe e in un secondo tempo Masciarelli).

Una situazione dunque assai favorevole che riscattò l’immagine di un vino/vitigno fino ad allora considerato soprattutto un’ottima soluzione da “concia” (i famosi “Château Iveco” cui alludeva Daniel Thomases quando scriveva della cattiva abitutidine di molte aziende chiantigiane di arricchire il Chianti partivano proprio dall’Abruzzo) oppure un rosso di ruspante godibilità, ma certo non un protagonista di talento. Non un campione.

La sua storia mi sembra per certi versi simile a quella della barbera in Piemonte: a lungo sottovalutata, poi riscoperta ed esaltata (con non pochi eccessi) e infine addirittura dimenticata. Una via di mezzo mai. Così va il mondo.

Ultimamente, sulla scorta del lavoro di approfondimento svolto dal Masna per Enogea, mi sono messo sulle tracce delle bottiglie più significative prodotte nei comprensori più vocati (Abruzzo, Piceno e Conero) e debbo dire che un vino mi ha sorpreso più degli altri: l’Erasmo Castelli 2004 dell’azienda picena di Maria Pia Castelli di Monte Urano, nel Fermano.

Imposto nel breve volgere di poche vendemmie all’attenzione degli amatori, è un’interpretazione di alto profilo, capace di esprimere fisicità e ritmo, volume e spessore, frutto e la giusta dose di evoluzione.

Un rosso reattivo, dinamico, naturalmente succoso e segnato da un carattere lievemente selvatico/minerale che non scade mai nella rusticità. Eccellente anche la sua capacità di crescere e conservarsi all’aria.

Dategli una chance, la merita.

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