15 marzo 2012 | Francesco Falcone

Il cavatappi insanguinato di Quentin Tarantino

di Francesco Falcone
Kill_Bill

Guardare i film di Quentin Tarantino – Kill Bill più di qualunque altro – equivale a trovarsi in un mattatoio dove il custode/autore ci mette di fronte a una dimostrazione di violenza talmente gratuita che talvolta scade nella comicità: torture insostenibili e claustrofobiche, orecchie tagliate al ritmo di musica pop, braccia e gambe che fluttuano in aria come in un manga giapponese, teste che rotolano sui tavoli dei ristoranti, stupri omosessuali, sangue che schizza da tutte le parti, colpi di pistola sparati accidentalmente, corpi che vengono letteralmente aperti in due, calotte craniche asportate.

Ad esclusione di Inglorius Bastard (il suo unico, vero capolavoro), i film del cineasta di Knoxville sono però privi di traiettorie narrative e non emozionano: è come se non rilevassero nulla di significativo sui loro elementi costitutivi. Storie di superficie, di facciata, al pari di quei poderosi, dimostrativi, minacciosi vinoni “icona” prodotti in giro per il mondo (e soprattutto nel Nuovo Mondo): pellicole e vini “usa e getta” che vanno appunto consumati una sola volta nella vita.

E se lì per lì ti affascinano per l’apparente brillantezza estetica (nel caso di Tarantino: l’elegante struttura di Pulp Fiction, i meccanismi dell’intreccio oliati a dovere di Jackie Brown, la tensione depravata di Le Iene), rivisti una seconda volta, magari dopo anni di distanza, scopri che si tratta di film – o di vini – noiosi, dalla trama esile, in cui la violenza – o il volume – copre il senso di vuoto, in cui le citazioni e gli omaggi cinefili – o la tecnica enologica – sono solo coreografia, solo ornamento.

Detto ciò, il film a mio avviso più interessante di Tarantino – lo ripeto, dopo il recentissimo Inglorius Bastard – è “Una vita al massimo”: lo vidi nel 1994 nelle sale ingiallite del cinema Smeraldo di Gioia del Colle. Era la seconda pellicola della sua bizzarra e sanguinaria triologia “pulp”: uscì due anni dopo Le Iene e un anno prima di Pulp Fiction. Tarantino si occupò della sceneggiatura mentre la direzione fu affidata a Tony Scott, regista reso celebre dall’enorme successo commerciale di Top Gun.

“Una vita al massimo” mi rimane impresso il sicario James Gandolfini che picchia metodicamente una ragazza dalla lingua troppo lunga prima di ucciderla (come aveva già previsto di fare), il viso pesto e sanguinante della povera donna (che invade tutto lo schermo) e soprattutto un banale quanto efferato accoltellamento con un cavatappi: il mio ferro del mestiere che si traforma in un’arma diabolica, uno strumento apparentemente innocuo – benché utile alla causa del vino – che diventa violento.

Sarà per questo, ma non ne sono certo, che ogni volta che stappo un vino sanguigno (sia nel temperamento, sia nelle sensazioni organolettiche) mi ritorna alla mente la sequenza di quel film. Sarà per questo, ma non ne sono certo, che i vini sanguigni mi appassionano: e sono soprattutto i Syrah della Côte Rôtie, a mio avviso, che evocano il sangue con una forza e un realistimo straordinari.

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