11 febbraio 2014 | Francesco Falcone

Il dolcetto e Dogliani. E il San Fereolo di Nicoletta Bocca

di Francesco Falcone
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Se il Nebbiolo traina il Piemonte, il Dolcetto lo sorregge. È il vitigno della nascita e della mensa, dolce l’uva e ruvido il vino, è la credenza dei ricordi, è la pacca sulle spalle, che quando arriva fa rumore. Il Dolcetto rispetto al Nebbiolo è l’estate e il luogo della festa, il tempo bambino e il luogo del ritorno a qualcosa che forse non c’è più. Dopo valanghe di istigazioni a liberarlo dagli incantesimi, soprattutto a Dogliani, per adeguarlo – pensa un po’ – alla barolista modernità, l’attualità ci racconta di un progetto in parte irrisolto e in parte fallito: irrisolto il tentativo di cambiarne gli attributi, fallito il tentativo di promuoverlo sul mercato internazionale. La vera scommessa, oggi, è valutarlo caso per caso, è pensarlo con gli occhi del presente, tradurlo nella sensibilità dei nuovi appassionati, senza dimenticare, certo, il bene e il male che gli si è fatto finora.

Il fascino del Dolcetto passa dal suo significato letterale di ammiccare, dalla sua capacità di regalare frutta, colore, tannini e calore, dalla sua predisposizione a farsi vino da merenda e vino da banchetto a seconda delle intenzioni di chi lo governa e delle potenzialità della terra in cui è coltivato. Mi sono chiesto: ma da dove ti viene questo breve post sul Dolcetto dopo anni di colpevole dimenticanza? In fondo rischia di passare per un elogio dell’arretratezza, un tardivo amore di coccodrillo per le origine tradite, un risarcimento a favore di un amico abbandonato. Non mi importa, mi sono risposto.

Lo so che difendere e raccontare il Dolcetto è ormai una battaglia di retroguardia, ma io ci provo. E ricomincio dal mio Dolcetto del cuore: il Dogliani San Fereolo di Nicoletta Bocca. Dal 1997 al 2009, ho recentemente riassaggiato ogni singola annata in compagnia della sua autrice. Nicoletta è tra le donne del vino più sensibili che io abbia mai conosciuto, adorabile intellettuale prestata alla vigna, interprete inquieta che vive con disagio il distacco dai suoi vini come uno scrittore dai suoi racconti, come un genitore dai suoi figli.

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Non vi tedierò con le solite recensioni, ma vi assicuro che tutte le bottiglie stappate, senza eccezioni, hanno raccontato qualcosa di forte, di autentico, di inequivocabile, sulle loro origini: 1997 è la terra, il 1998 la tenerezza, il 1999 il temperamento, il 2000 l’armonia, il 2001 il carattere, il 2003 il sole, il 2004 il frutto, il 2005 l’equilibrio, il 2006 la potenza, il 2007 la gioventù, il 2008 le difficoltà, il 2009 la promessa.

La promessa che il futuro del Dolcetto e di Dogliani, nelle mani giuste, potrebbe esistere davvero, potrebbe cioè smettere di essere solo una congettura.

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