14 marzo 2012 | Francesco Falcone

Il sanguinaccio

di Francesco Falcone
porco-rosso

La prima e unica volta fu terribile. Una domenica di inizio marzo del 1989. L’Inter dei record di Zenga e del Trap giocava a San Siro con il Verona, l’aria era fredda e ovattata, con quel cielo sornione che è tipico della Murgia in inverno, pieno di nuvole grigie che oscuravano un cielo senza pioggia e senza vento.

Si doveva ammazzare il maiale nella vecchia Masseria “Romano”: per legarlo alla stadera ci si misero in quattro, e fu un’impresa. Il povero porco si dibatteva con tutte le forze e aveva gli occhi sbarrati dal terrore. Come i miei, d’altronde. Aveva intuito il suo destino di vittima e io quello di involontario carnefice.
Pesava più di un quintale, ma non lo dimostrava.

Quando arrivammo nella vecchia rimessa che odorava di ferro e di topi, in fondo al locale zio Mimì stava arrotando i coltelli: un Hannibal Lecter di campagna, più rustico nei modi e mediterraneo nei lineamenti. All’improvviso Zio Sandro e mio papà si avventarono sull’animale come due mandriani del far west: la bestia si dibattè lanciando urla che si sentivano ovunque, in mezzo all’aia e magari perfino nel carraro d’ingresso e forse anche da più lontano. Sembrava un uomo disperato che invocava aiuto. Io assistetti alla scena basito, sconvolto, senza osare ribellarmi.

Una volta placato lo stesero su un tavolaccio di legno con i bordi molto rialzati come la scocca di un Calcio Balilla, ma senza colori e anzi di un legno ormai ingrigito dal tempo e dai cadaveri. All’estremità c’era un buco dal quale non uscivano palline, ma la sua testa e il suo grugno. Nel frattempo gli legarono le zampe. Io stavo in un angolo, muto e pallido. La bestia mi guardava chiedendo aiuto come un cristiano prima di un’esecuzione e io non potevo nulla. Ero complice della sua fine.

Nonno Ciccio gli affondò il coltello nella gola e il maiale lanciò un urlo rauco e lancinante, grave e acuto. Io rabbrividì. La lama tagliente gliela conficcò dentro con mestiere, come un boia professionista, facendo attenzione a non farlo morire subito. Passò mezz’ora prima che uscisse tutto il sangue e anche di più perché finalmente la bestia si placasse. Era un porco rosso meno anarchico di quello disegnato dal geniale Hayao Miyazaki, sebbene anche lui, se avesse potuto, si sarebbe trasformato in un solitario samurai errante e senza padrone. Per vendicarsi.

Nonna Maria reggeva sotto un catino: <<ca pozz scttà u’ sagn d’angann!>> diceva, mentre raccoglieva e rimestava il sangue aggiungendovi mosto cotto di fichi, cacao, mandorle, latte, zucchero, cannella e chiodi di garofano.

Poi andò nel “sottano”, mise il liquido bordeaux sul fuoco e continuò a rimestare, mentre il composto si riempiva di crasse bolle flaccide. Dopo un’oretta circa, il sanguinaccio era pronto, stemperato e solidificato come un budino.

La nonna ne mise un po’ nel piattino. Lo diede da assaggiare prima agli uomini, poi alle donne. E tu, Francesco, non lo prendi? Io non mi muovevo. Prendi a nonna, il sanguinaccio. Non dici niente? A nonna. Il sanguinaccio è buono. Dai che devi crescere, a nonna.

Al che la vecchia prese un cucchiaio bello pieno e me lo infilò in bocca.

Era il diavolo viscido che mi entrava dentro: in quel momento sentì sotto il palato una consistenza molliccia, un sapore dolciastro e cioccolatoso con un ruvido retrogusto di emoglobina.

Mi andò giù serpeggiando nelle viscere, le torse e me le fece arrivare su fino in gola. Il sapore nauseabondo mi invase tutto, le sequenze “splatter” della rimessa anche e così lo stomaco mi salì nelle orecchie. Vomitai anche l’anima.

Da allora il sanguinaccio non l’ho più mangiato, ma il sangue non mi fa più impressione e i film di Tarantino li ho visti tutti, dal primo all’ultimo.

Lascia un Commento