29 maggio 2012 | Francesco Falcone

Intervista vintage a Federico Curtaz

di Francesco Falcone
curtaz

Nell’estate del 2006 incontrai Federico Curtaz per un’intervista. Era in vacanza con la sua famiglia a Cervia, dove abito, e tra un Mojito e un Americano sorseggiati sotto l’ombrellone, ne approfittai per chiedergli un parere sul Sangiovese di Romagna, che da poco andava conoscendo personalmente grazie alla collaborazione con l’azienda romagnola di Cecilia Fanfani, la graziosa Tenuta Volpe di Roncofreddo.

Federico, capelli al vento e sorriso “hollywoodiano”, per quindici vendemmie è stato il responsabile agronomico di Angelo Gaja. Dal 1983 al 1997 visse dunque da protagonista, nella più importante azienda italiana, un periodo magico per il vino di Langa: anni di grande euforia commerciale e produttiva, forse impossibili da rivivere. È lì che si è formato, che è cresciuto, che ha preso piena consapevolezza di sé, ma soprattutto di quanto complesso sia il mestiere del viticoltore.

Dopo quell’esperienza così gratificante, alla fine della calda vendemmia del 1997, Federico cambiò rotta. Aveva bisogno di nuovi stimoli, aveva urgenza di ampliare le sue conoscenze: e così decise di iniziare una nuova carriera come consulente, prima con il gruppo Matura (insieme a Gianpiero Romana e Attilio Pagli), poi in solitudine. Prima solo in campagna, poi anche in cantina. Oggi che fa pure il produttore in quella scura e instabile fetta di terra promessa che si chiama Etna (Tenuta Fessina, la sua azienda), il cerchio si chiude.

Di seguito i passaggi più importanti di quella lunga e alcolica chiacchierata “balneare”. Buona lettura.

Francesco Falcone
Federico, se si esclude Castelluccio, meno di vent’anni fa la Romagna era considerata terra da rossi privi di distinzione. Poi è arrivata una generazione di vignaioli più sensibile al concetto di qualità. Visto che da pochi anni operi in Romagna, e per di più nel Cesenate, dove fino all’altro ieri, si coltivava soprattutto frutta, che idea ti sei fatto della regione e del suo sangiovese?

Federico Curtaz
Da osservatore esterno, ho sempre considerato il Sangiovese romagnolo un vino legato all’uomo che lo coltiva più che al territorio che lo ospita. E oggi che frequento più spesso la zona, ho la conferma che il vitigno da queste parti, qui più che altrove, dà buoni risultati solo se chi lo governa è un vignaiolo sensibile, intelligente, coraggioso, altruista. Manca, invece, un concetto maturo di terroir.

FF Pensi dunque che rispetto all’area storica della Toscana, in Romagna non ci sia ancora, da parte degli operatori, una piena consapevolezza dei propri mezzi?

FC Il mio discorso è più articolato e forse più personale. Penso che il Sangiovese qui dia un’espressione “popolana” di sé, meno nobile, meno aristocratica e direi anche meno borghese. Se fossimo in un teatro dell’800, i produttori romagnoli si accomoderebbero nel loggione, lasciando palchi e platea ai toscani. È l’indole generosa del vitigno che qui si mette al servizio delle esigenze della gente che beve per bere. Da qui, dunque, nasce il percorso produttivo che la denominazione ha intrapreso in passato.

FF Eppure, nei vini di qualità, non è la diluzione o l’approssimazione il problema più evidente. Semmai, al contrario, mi pare che i limiti più frequenti siano legati alla mancanza di un carattere, di un’identità. Soprattutto nelle selezioni di maggiore ambizione.

FC Al di qua dell’Appennino, da Imola a Cattolica, sono oltre 100 i chilometri di estensione del territorio interessato alla denominazione. Difficile dunque pensare di recintare uno stile, un carattere specifico, più facile, invece, che a emergere sia la mano del produttore. E non dimentichiamo che qui la cooperazione, che ha funzionato bene per la frutta, ha invece faticato a proporre un progetto interessante dal punto di vista enologico: questo ha reso ancora più indefinito il profilo del Sangiovese di Romagna.

FF Che rapporto hai con il Sangiovese?

FC Felice, direi, mi piace la sua trama tannica così dolce e intrecciata di sapori: dal punto di vista strettamente tannico, pochi altri vini al mondo riescono a fare meglio. Personalmente penso che il punto più alto della sua espressività, della sua eleganza, della sua nobiltà, il vitigno la esprima a Montalcino. Nelle annate migliori, intendo quelle più regolari, il Brunello ha tutto quello che un rosso di classe superiore deve possedere: volume, equilibrio, profondità, lunghezza, longevità. Un volume addirittura pari ad un vino di Bordeaux, ma più etereo, più indisciplinato nei sapori. Certo meno colorato di un cabernet, ma più soffice e meno amaro. Montalcino è una somma sofisticata di potenza ed eleganza. Nel Chianti Classico, invece, l’espressione del vino si fa più dritta, non per forza verticale, non per forza austera, ma un po’ più fredda: una sensazione connaturata alle caratteristiche del territorio, perché lì ci sono l’alberese e il galestro che apportano quell’acidità, a tratti severa, che al contrario è spesso un limite, soprattutto nelle annate calde, a Montalcino. E di conseguenza, in un Chianti, anche se prodotto in zone soleggiate e aperte, si riduce la percezione del volume, del calore, della sensualità, a favore delle vibrazioni. In Romagna, infine, l’uva sente maggiormente l’influsso della Pianura Padana da una parte e del mare dall’altra, e dunque si ottengono rossi di volume importante ma forse di minor contrasto rispetto al Chianti e di minore complessità rispetto a Montalcino.

FF L’estensione del territorio, che si estende dagli Appennini all’Adriatico, passando attraverso la continentalità climatica della Pianura Padana offre tuttavia una variegata scala di terroir potenziali. A volte, nel bicchiere, i vini sembrano un incrocio tra Maremma e Chianti Classico. Che ne pensi di questa lettura?

FC Dovessi azzardare un paragone, direi che la Romagna ha molte più similitudini con la Maremma. Certo non bisogna perdere di vista il fatto che nel Grossetano c’è più luce e un clima più mediterraneo, mentre in Romagna le estati sono più focose e le primavere meno limpide, ma se si valutano i risultati enologici, qualche punto in comune c’è.

FF Prima di lasciarti alla tua famiglia, dimmi quali sono i tuoi Sangiovese romagnoli di riferimento. Oggi.

FC Fattoria Zerbina e i Drei Donà di Vecchiazzano in questi anni hanno dimostrato che in Romagna si possono ottenere Sangiovese che alla potenza delle argille sanno unire carattere e precisione: per questa ragione hanno guadagnato consensi presso un pubblico di veri intenditori. Poi c’è Castelluccio, che soprattutto in passato ha fatto lampeggiare caratteristiche espressivi assai particolari, fuori dal comune in regione: nei vini di Baldi l’eleganza, le sottigliezze e la capacità di conservazione contavano più della struttura e del calore. Dietro questi tre nomi, c’è poi un gruppo di produttori che sta crescendo piano piano, alcuni dei quali hanno le carte in regola per farsi apprezzare fuori dai confini locali. Vedremo.

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