3 febbraio 2012 | Francesco Falcone

La Murgia

di Francesco Falcone
murgia

L’anno scorso ho cominciato a scrivere un libro sulla mia terra, la Murgia. Vorrei farne un racconto autobiografico, mettendoci dentro esperienze e riflessioni, sul vino e non solo, ma il poco tempo a disposizione mi ha frenato. Non ho mollato, ho solo rinviato. Fino ad oggi ho buttato giù un po’ di cose, senza una forma adeguata, a parte il primo capitolo, che mi piace così com’è. E anche se non si parla di vino, sebbene la mia sia una terra di vini squisiti, lo condivido su questa pagina come un semplice divertissement.

 

Oggi degusto vino e vivo a Cervia, sul mare Adriatico, tra foschia, piadine e sangiovese. Ma sono pugliese e la Puglia mi manca come l’aria. Senza di lei mi sentirei senza radici. Senza amici. Senza nulla. Mi basta pensare ai suoi colori, mi basta un attimo, per trovare conforto.
Sono nato a Gioia del Colle, una cittadina pugliese della Murgia carsica. I primi anni della mia vita abitavo in una di quelle case basse con le volte alte del paese vecchio. Erano bianche, tozze, senza tetto, fatte di tufi e chianche.
Di quel quartiere, popolare, mi rimangono poche immagini, ma chiare: cani randagi spelacchiati e rauchi che vagano per le strade e i braccianti col trerruote che al mattino presto partono per andare a lavorare la terra. Vecchietti curvi e irruviditi dal tempo, con la coppola, le mani enormi, e nel carro una zappa, una vanga e una coperta di juta che ricopriva mucchi di chissà cosa.
Poi c’era la masseria di mio nonno. Masseria Romano. C’arrivavo da una strada che conoscevo a memoria, indelebile come il corridoio di casa. Si trova, ancora oggi, vecchia e senz’anima, in una campagna ricoperta di ulivi e di querce. Ci sento ancora il tanfo del letame, e poi le stalle dei vitelli e quella, più grande, delle mucche da latte, a cui davano un nome come ai cristiani.
D’estate, la campagna, era di un italico tricolore, bianca e rossa e verde. Bianca come la roccia, rossa come la terra, verde come la macchia. Adoravo le monumentali piante di fichi d’india, dritte e pungenti, gravide di frutti anch’essi variopinti.
D’inverno, invece, tutto era grigio come i muretti a secco che da noi segnano i confini e gli orizzonti. E poi la neve, che ogni tanto arrivava e quando arrivava mi mettevo dinanzi al camino, frignando per il freddo. Capitava, in quelle notti fredde e nevose, di rimanere a dormire dai nonni. Che paura. Sentivo ululare perfino i lupi. Anche se forse non si trattava di lupi, ma di quel vecchio brontolone di un pastore tedesco che stava di guardia alla masseria.
Ma la stagione ideale della Murgia è la primavera. La luce. La vita. Paese di calcari e rovi, macigni e urla di bambini in festa. E Pietre. Pietre ovunque. E l’erba graffiante. E il vento di tramontana. E il sole.
La Murgia per me è l’infanzia. Io bambino mingherlino che corro come una lepre per quei terreni pietrosi e sconnessi, spaventando il bestiame al pascolo. Che mi butto a pancia a terra, sdradico le cicorielle selvatiche, quelle che si usano per accompagnare il purè di fave, e le rosico terrose.
Il sapore di quella terra, così forte, così ferrosa, a trent’anni di distanza, non mi ha mai abbandonato. E la sento, quasi come un’allucinazione, in ogni vino murgese che assaggio.

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