10 maggio 2012 | Francesco Falcone

Moscato di Saracena 2008, Viola

di Francesco Falcone
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Ricordo una carrozza color mogano tirata da sei cavalli color mogano impennacchiati di nero e di nero bardati. Un fenerale pomposo e anacronistico, spagnolesco e barocco. Seguono trenta, quaranta file di strane facce, facce da commedia dell‘arte portate a spasso da corpi bradiposi e penzolanti. Ricordo, ancora, le vecchie signore voltarsi verso la gente che lungo la strada assiste al lutto, assicurandosi, ne sono certo, che nessuno trascuri di farsi il segno della croce.

In quello stesso pomeriggio, inasprito dal sole e dalla roccia del Pollino, assaggio per la prima volta un vino altrettanto antico, imbalsamato nei secoli: il Moscato di Saracena. E mentre ho il calice tra le mani, mi domando: chissà come fanno Luigi Viola e i suoi tre figli (Roberto, Alessandro e Claudio) a conservare una tale ampiezza di dettagli in un vino dalla natura così drasticamente ossidativa, così anacronista, così barocca. E mi rispondo che questa, in fondo, è la pittoresca grandezza del nostro Mediterraneo.

Ho qui con me, stasera, l’edizione 2008 già recensità su un vecchio numero di Enogea: un passito particolare, che profuma di pan di Spagna, di pepe, di lavanda e di erbe amare e che al palato è dolce, ma con misura, soffice ma non voluminoso, intenso e saporito più che denso, dotato di equilibrio impeccabile. Chiude con una lunga persistenza di resine e catrame.

Non so per voi, ma per me il Moscato di Saracena non è un vino, ma un susseguirsi di risposte impossibili, di paradossi enologici, di contraddizioni scientifiche. E più lo assaggio, e più mi tornano in mente, chissà perché, le facce di quel funerale, e poi il rosario di oleandri e gli aghi del Pino d’Aleppo della struggente campagna di Castrovillari.

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