7 marzo 2012 | Francesco Falcone

Scienza e tradizione, uno studio di Maurizio Gily

di Francesco Falcone
Convegno su ?Eccellenze enologiche e qualità dei paesaggi agrari. Il paesaggio crea il valore del vino?? a Tagliolo Monferrato, sabato 16 ottobre 2010. Nella foto: Dott. Maurizio Gily (Agronomo e Direttore del periodico Millevigne) con una relazione su ?L?evoluzione del paesaggio in una viticoltura sostenibile?.

Rara figura di agronomo, studioso, consulente, degustatore e giornalista scientifico, Maurizio Gily (www.gily.it) è un talento trasversale e una “penna” evocativa, in grado di mescolare accademia e cronaca, scienza e storia con invidiabile capacità di sintesi. Erano mesi che volevo chiedergli il permesso di poter pubblicare sulla nostra pagina l’ interessantissima relazione che tenne al convegno “Terroir 2006” (organizzato dall’Università di Davis in California), dove trattò l’aspetto del rapporto tra scienza e tradizione nel vino. Ieri, non so perché, c’ho provato e lui, il buon Maurizio, ha accettato senza riserve. La versione è integrale. Buona lettura.

Vitigno e ambiente

Nel quinto secolo avanti Cristo lo scienziato e filosofo Empedocle di Agrigento, greco di Sicilia, affermava che “non sono le differenze tra le viti a fare le differenze dei vini, ma quelle relative ai terreni che le nutrono”. Si tratta di una delle prime affermazioni sull’idea di “terroir”. Nel mondo greco non esisteva il concetto di vitigno come noi lo intendiamo, e la maggioranza degli studiosi pensava che fosse l’ambiente a determinare non solo i caratteri dei vini, ma gli stessi caratteri della pianta. In epoca romana alcuni autori (Columella, Plinio…) già citavano vari tipi di uve e proponevano una prima classificazione: (Amineae, Apianae, Elvennaceae etc.). Columella sostiene anche l’ereditarietà dei caratteri (ipsa natura subolem matri similem esse voluerit), teoria decisamente d’avanguardia per l’epoca. Tuttavia per tutti era assodata la relazione tra ambiente di coltivazione, caratteristiche e qualità del vino.

L’ampelografia moderna nacque solo dopo gli studi fondamentali di Linneo e la sua classificazione delle specie viventi, che fissava una volta per tutte il concetto, ripreso poi dal Darwinismo, che i fattori ambientali non hanno influenza sul genotipo ma, al più, e solo in alcuni casi, sulla sua espressione esteriore. La “scoperta” del vitigno come elemento chiave della variabilità tra i vini fece emergere due scuole di pensiero, quella che assegnava al vitigno la priorità nel determinare i caratteri del vino, e quella che, riprendendo i concetti degli antichi, attestava, nella gerarchia dei fattori, la superiorità del “terroir”.

La fase storica che viviamo oggi si trova nel bel mezzo di questa discussione. Ma in realtà questa rischia di essere una discussione inutile: i vitigni da vino coltivati nel mondo, considerando solo quelli che hanno un minimo significato economico, sono un migliaio. La maggioranza di essi ha un utilizzo esclusivamente locale, e soltanto una minima parte si sono diffusi nel mondo. Perciò il legame vitigno-ambiente rimane un legame forte e difficile da scomporre. Nessun vitigno è nato “internazionale”, ognuno nacque da un singolo seme, in un singolo luogo.

Se oggi l’Europa torna a puntare sui vitigni autoctoni non è perché questi siano “migliori” dei cosiddetti vitigni internazionali, ma perché, semplicemente, sono diversi. E benché si possano piantare ovunque, nei fatti questo non avviene. Da un punto di vista commerciale la biodiversità, almeno per i prodotti alimentari di alto livello, sta diventando una risorsa, mentre in passato era quasi una limitazione, tanto che abbiamo perso migliaia di varietà vegetali e animali, e poiché questo processo purtroppo continua dobbiamo concludere che stiamo sperperando un patrimonio non solo biologico e culturale, ma anche economico. La difesa del patrimonio indigeno di vitigni si lega quindi all’idea di terroir, anche se ne è distinta.

Scienza e memoria

In Europa, per lo meno nella parte più fresca del continente, c’è un tradizionale stratagemma per individuare le zone più vocate alla viticoltura. Si dice che i vigneti vanno sempre comprati d’inverno, mai d’estate, perché bisogna guardare la neve. Le zone dove la neve si ritira prima sono quelle più vocate alla viticoltura, i “sulìn” del Monferrato, i “sorì” delle Langhe, alcuni “grands crus” della Borgogna.

In effetti questo fenomeno della diversa velocità di scioglimento della neve è strettamente legato alla morfologia del territorio, ed è oggi simulabile con appositi software che operano su base cartografica GIS, i quali, calcolando esposizione, pendenza ed effetti di ombreggiamento reciproco dei versanti, producono mappe di radiazione solare differenziata.

Il metodo di guardare la neve funziona altrettanto bene, forse meglio. Ma la simulazione del GIS fornisce un dato più oggettivo, quindi più facilmente utilizzabile anche a fini normativi, come ad esempio l’iscrizione, o meno, di un vigneto all’albo della denominazione di origine. Gli studi scientifici su mesoclima, geologia e pedologia, che si avvantaggiano oggi delle più moderne tecnologie di fotointerpretazione e di mappe su modello digitale del territorio, sono un aiuto importante per la comprensione dei “terroir”: sono in grado di individuare differenze, di indicare il potenziale di maturazione di un vitigno in un dato luogo, di prevedere possibili problemi fisiologici e fitosanitari.

Tuttavia una critica che si può fare a questi metodi è che faticano a cogliere le “differenze sottili”, che sono quelle che distinguono la “vigna” (in Italiano) o il “cru” (in francese) dalla media della zona, cioè ad individuare e prevedere l’eccellenza. Le prove sperimentali di zonazione sono difficili e raramente forniscono risultati soddisfacenti sotto questo profilo. E’ più facile individuare differenze su vasta scala che su piccola scala. In una zona viticola tradizionale europea, come la Borgogna o il Monferrato, quando confrontiamo vini provenienti da vigneti diversi per cercare di caratterizzare il “terroir” incontriamo molte, forse troppe fonti di errore: differenze clonali, stato sanitario e virosi, tecnica di impianto, tecnica colturale, e l’effetto annata, che su periodi di prova brevi, ad esempio due o tre anni, tende a soverchiare l’effetto “territorio”: e le differenze non sono costanti, perché in annate piovose i vigneti collinari ben drenati danno qualità migliore, in annate asciutte è il contrario.

La viticoltura delle zone temperate europee, come la Francia continentale, la Germania e l’Italia settentrionale, è particolarmente soggetta a queste variabili, per variabilità del clima, elevata disformità genetica intravarietale, assenza di irrigazione, presenza di vigneti vecchi, ruolo delle virosi, variabilità elevata nella natura dei terreni anche su brevi distanze. Le microvinificazioni, cioè le vinificazioni su piccola scala a scopo di studio, aumentano il margine di errore per la difficoltà di operare in condizioni standard.

Cluster analisis sulla degustazione dei vini Barolo

Sarebbe stato bello per i ricercatori se i cluster ottenuti avessero raggruppato esattamente le diverse “vigne” o crus di Barolo. In realtà questo è avvenuto solo in piccola parte, considerando i tre anni dello studio. Ciò significa forse che il “terroir” è solo un mito? Io penso di no, assolutamente. Il mito gioca un ruolo importante, e probabilmente quei degustatori che si vantano di riconoscere la vigna di provenienza di un Barolo non sono in grado di provarlo in modo statisticamente significativo. Eppure caratteri distinti e ripetibili esistono, e sono percepibili. Ma gli strumenti di indagine scientifica fanno fatica a individuarli, in un arco di tempo breve come tre o quattro anni che sono in genere i tempi di una sperimentazione.

Forse per questo molti tecnici europei hanno maturato un certo scetticismo nei confronti del concetto di zonazione attuata con strumenti scientifici di indagine, che non significa sfiducia verso la scienza, ma riconoscimento di alcuni suoi limiti, e accettazione di tali limiti. In verità nel concetto di vocazione, e quindi di terroir, noi Europei, oltre ai parametri ambientali e colturali, includiamo, più o meno consapevolmente, il concetto di “memoria” collettiva, che non coincide perfettamente con quello di tradizione.

La tradizione è un modo di operare che è stato tramandato, la memoria indica qualcosa che “avviene” indipendentemente dalla nostra volontà. Vuol dire che solo su tempi lunghi la superiorità, o il carattere peculiare, di una “vigna” rispetto ad un’altra emerge e viene confermata. Il che non esclude che la scienza possa prevederla, ma probabilmente gli strumenti per questo devono essere ancora affinati. Tale differenza inoltre, tornando a ragionare su una scala più vasta, è suscettibile di modificarsi nel tempo, vuoi per il mutamento dei gusti del mercato, vuoi per un mutamento del clima, vuoi per l’affermarsi di una tecnica di vinificazione in grado di valorizzare meglio le uve di un certo territorio.

Lo Champagne emerse come vino di prestigio e di moda con la spumantizzazione, che esalta i caratteri “verdi” di un’uva maturata lentamente, in una fascia climatica che si trova ai limiti dell’adattabilità della vite, mentre, in precedenza, i tentativi di fare vini rossi non produssero risultati apprezzabili. Al contrario i vini dell’Italia e della Francia meridionale, famosi in epoca romana, quando si vinificavano in piccole quantità, in giare o vasche di pietra seminterrate, in epoca moderna furono considerati vini da taglio o di qualità corrente: oggi invece tornano alla ribalta grazie ai miglioramenti della viticoltura e soprattutto dell’enologia, con l’introduzione del freddo in cantina, che, in qualche modo, ricrea condizioni più simili a quelle dell’antichità. Così il concetto di “vocazione” di un terroir non è fisso ma si sposta nel tempo e nello spazio.

I nostri antenati avevano una diversa concezione del tempo. Lo scavo dell’infernot, nella pietra da cantone (“Cantone limestone”), tipico del Monferrato casalese, avveniva in inverno, quando i lavori in campagna erano fermi per la neve e il maltempo. Poteva richiedere anche decine di anni. La stessa pietra calcarea che origina i terreni da vino custodisce, in profondità e negli anni, il vino finito.

Il rapporto con il cibo e la biodiversità

Per i paesi tradizionali produttori di vino questa bevanda è tipicamente compagna del cibo. Da noi non esiste il concetto di “food wine” perché è implicito. Dal punto di vista del marketing quando si “vende” un terroir lo si vende con tutto il suo contenuto, che non è solo vino, ma è, ad esempio, carni, salumi, formaggi, tartufi, cucina, e paesaggio. Un complesso di “saperi” e non solo di prodotti. I prodotti alimentari tradizionali, soprattutto se ottenuti con materie prime che appartengono a genotipi locali, sono alleati straordinari nella comunicazione sul vino.

Purtroppo l’omologazione nel cibo, almeno per le materie prime, se non per la loro elaborazione, è stata più dura che non nel vino. In Italia si allevavano solo un secolo fa un centinaio di razze suine, oggi sono tre, a meno di alcune piccole “enclave” di resistenza. Se a qualcuno capiterà di assaggiare il prosciutto di mora romagnola, o il Parmigiano di vacca rossa reggiana, in luogo dei soliti maiali Large White e vacche Holstein, comprenderà meglio, attraverso il naso e la bocca, ciò che intendo dire.

In realtà il terroir, visto sotto il profilo del marketing, si caratterizza non tanto per il contenitore, cioè l’insieme dei parametri fisici, clima e terreno, ma per il contenuto. Per questo molti produttori di vino italiani, o consorzi tra produttori, hanno deciso di sostenere economicamente i “presidii” Slow Food, cioè gruppi di aziende che proseguono nella produzione di specialità alimentari, nella difesa di specie vegetali e razze animali che rischiano di estinguersi.

Terroir: spunti di discussione

Prima di saltare alle conclusioni desidero introdurre alcuni spunti di discussione.
Il primo: il “terroir” non può essere un pretesto per vendere vino scadente, oppure per vendere un vino di media qualità al prezzo di un vino di eccellenza. Potete avere un bel castello e metterlo sull’etichetta: se il vino è buono questo aiuterà molto a venderlo, ma sarà pressoché inutile se il vino è mediocre. Non funziona. Il castello è un simbolo, ma la questione riguarda l’intero sistema delle denominazioni di origine. Non sembrano in grado di garantire sempre la qualità, e talvolta non sembrano in grado neppure di garantire l’origine.

Secondo: il suolo non è solo sabbia, limo, argilla e pietre. E’ un ecosistema vivente molto complesso. La microbiologia del suolo sembra poter giocare un ruolo su alcuni elementi del “terroir”, quali la resistenza della pianta a certe malattie e la produzione di alcuni aromi come i terpeni. C’è poca conoscenza scientifica su questo argomento. Esiste un piccolo gruppo di ricerca in Italia che ha avviato uno studio in questo senso.

Infine: il terroir merita il nostro rispetto. Vediamo gente piantare vigneti ovunque nel mondo, anche ai Tropici, e sotto l’influenza di un regime pluviometrico monsonico. Il poeta inglese Wordsworth ha scritto: lasciate che la natura vi sia maestra. Forse possiamo fare buoni vini in Tailandia e in Venezuela, e a costi molto bassi, per alcuni anni. Ma non durerà. La natura presenterà il conto, in termini di malattie fisiologiche e di nuovi parassiti. Attenti alla vendetta del terroir, contro la nostra presunzione.

Conclusioni

Il rapporto tra terroir, scienza, tradizione e marketing è assai complesso. Secondo alcuni il “vino di terroir” che cerca l’esaltazione della differenza, si oppone al “vino di marketing” che cerca invece l’omologazione ad un modello prefissato. Nei nostri vecchi schemi mentali il primo modello era quello europeo, il secondo quello del Nuovo Mondo. Ma molti elementi, incluso il fatto che questo convegno si svolga in America, dimostra che questi schemi si sono rotti, e che il “terroir”, almeno per i vini di alta gamma, si riprende ovunque il posto che gli compete.

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